«L’acqua del lago non è mai dolce» di Giulia Caminito

Dirò solo alcune cose che, solo e soltanto a mio gusto, rientrano tra pro e contro

CONTRO
Nonostante gli sforzi di Caminito di sfuggire alla qualifica etichettante, L’acqua del lago non è mai dolce è un’autobiografia…
Lei dice di no, ma lo dice in modo rocambolesco…
Nelle note finali, con i ringraziamenti e altre postille di composizione, Caminito dice proprio (corsivo mio): «Questa non è una biografia, né un’autobiografia, né un’autofiction, questa è una storia che ha ingoiato frammenti di tante vite per provare a farne una narrazione, il racconto degli anni in cui sono cresciuta, dei dolori che ho solo circumnavigato e di quelli che ho attraversato»…
Beh, la parte in corsivo potrebbe tranquillamente essere la definizione di “autobiografia”…
Essere un’autobiografia non è di per sé un male, ma, come molte volte si dice (s’è detto di Mencarelli, di Carofiglio e, pochi giorni fa, di Trevi), molto spesso le autobiografie sono banali, poiché raccontano cose che tutti quanti abbiamo visto, subito e fatto già da noi…
…e se da una parte gratifica il vedersi rappresentati o il sapere che qualcun altro ha vissuto le nostre stesse esperienze, dall’altro affiora un gusto di inutilità che per me è sopraffacente: innamorarsi a batticuore, essere traditi o incazzarsi, subire la vita nel piccolo paesino e/o nella grande città, lottare con mamme entranti e con vari ed eventuali bulli, sono cose che tutti possiamo dire di aver vissuto (anche certi bulli, oggi come oggi, ti diranno che loro stessi hanno subito da bulli più grossi di loro o dalle mamme chiocce identiche alle tue), e quindi perché, se già l’abbiamo vissuto, perfino, spesso, con cocenti delusioni, c’è anche da LEGGERLO?…
Magari a tanti piace vedere il proprio paesetto rappresentato in film o libri, e ci sta eh…
e ci sta anche di voler “rivivere” certi passati, in modo nostalgico… ma io la nostalgia la schifo… problema mio…

Se quei “passati” sono remoti, allora, ok, l’interesse mi si risveglia (sarebbe bello vedere il paesello com’era nel Medioevo, nel Rinascimento, nell’Antichità!, senza però andare dalle parti di quella cacca che è stato Il primo re), ma se quei passati, come questi descritti da Caminito, sono ciò che per me è ieri (i primi 15 anni del nuovo millennio, 2001-2016), allora la curiosità svanisce…
io c’ero nel 2001 a vedere il G8,
c’ero a vedere il 2006,
perché quindi dovrei provare interesse a rileggere quel che in quegli anni è successo?

«Lo dovresti leggere perché Caminito potrebbe avere un punto di vista diverso rispetto al tuo!»
Concordo… ma direi che non ce l’ha…

«Potresti interessarti proprio perché Caminito, come dicevi, rappresenta quello che hai vissuto tu in arte e in letteratura, aiutandoti a elaborare anche ciò che tu stesso hai vissuto»…
So per certo che tale argomentazione vale per molti…
quindi ok: chi si vuole vedere rappresentato troverà in L’acqua del lago non è mai dolce motivi di giubilo…

PRO
Rappresenta il punto di vista della povera gente senza casa che fa la pendolare per andare a lavorare/studiare, e cresce nella mefitica serra del minuscolo villaggetto, all’ombra delle malelingue, dei teppistelli, della noia e della desolazione dell’indifferenza di chiunque…
Per alcuni potrà essere una pregevole lettura…
Per me, proprio appunto perché quella serra di paesello mi tocca, spesso, subirla tutt’oggi che sto per passare gli anta, mettersi anche a leggere del paesello, oltre che a subirlo, non è stato per niente piacevole…

CONTRO
Nonostante felici idee, come quella di evitare i discorsi diretti (perfino le virgolette), la letteratura proposta da Caminito non è come quella di Jonathan Bazzi o Teresa Ciabatti: non ha mai un attimo di dubbio sul suo essere letteratura…
I fatti accadono… e sono comunicati da un io narrante preciso, letterario, efficacissimo, goduriosamente metaforico, sfoggiante un lessico mastodontico e un senso del montaggio sopraffino (ispirato e ben calibrato su Easton Ellis)… ma è anche un io narrante esageratamente ricercato, quasi tronfio in certi casi, “asiano”… e nella sua bellissima forma mai che dica una volta: «cacchio, quello che dico, in quanto ricordo e in quanto costruzione letteraria sofisticata, è inattendibile o frutto di riimaginazione» (e questa è una delle caratteristiche migliori di Bazzi o Ciabatti, e che farebbe ben parte della fonte, cioè di Easton Ellis): quell’io narrante dice sempre: «io vi dico quello che ho visto: e così è stato»…
…anche se l’«e così è stato» passa attraverso deliranze varie frutto di una mente non proprio cristallina…

PRO
Che la mente agente da io narrante si riveli (senza fare troppo spoiler) una sorta di vera e propria serial killer è, per certi versi, un pregio: seguire il lavorìo di pensieri di una persona stramba e violenta rientra nella mia concezione di interessante molto di più della narrazione della vita nel borghetto…
e lo rientra di più anche perché quel serial killer, in prima persona, rendendoci partecipi dei suoi deliri, si smaschera come pazzoide, senza la glorificazione del cattivista (quella di von Trier o di Ema di Larraín, per capirsi)…

CONTRO
Che ci sia di mezzo un serial killer è anche, però, un contro, perché
1) la sua vicenda si incastra male con l’elegia/scontro del/col villaggio…
2) la sua presenza disarticola un certo discorso sociale che, sotto sotto, Caminito architetta in contumacia…

Lì per lì, rendere la nostalgia del passato e del paesino, condita con la mamma chioccia, il pendolarismo e i bulletti vari, come qualcosa di storto, che porta con sé violenza e ribaltamento del cervello, sembra starci…
poi però Caminito non ce la fa a dire che il villaggetto conduce alla violenza, anzi implica violenza (e invece la comporterebbe come dicono benissimo, per esempio, in grosso, il Peter Grimes di Britten nelle Musiche ispirate alla luna o Padri e figli di Turgénev o Anime morte di Gógol’ o il Barbablu Bartók, in piccolo Un luogo incerto di Fred Vargas), e quindi cerca, malamente, di ripiegare, edulcorando alla san fasò quel serial killer che aveva costruito…
ne esce un serial killer a metà…
una metà che non ha neanche la forza di rendersi autodistruttiva o completamente delusionale: se fosse stata autodistruttiva e delusionale avrebbe potuto dare proprio la colpa alla mamma chioccia, al capitalismo, all’atavismo o all’indifferenza dei ricconi nei confronti della periferia e del suo essere delusionale, cioè avrebbe potuto portare avanti i discorsi che, con molta più baldanza, arte e compattezza, porta avanti Teresa Ciabatti! Invece niente!
per capirsi:
se Caminito aveva tra le mani un serial killer, allora avrebbe potuto farne un monito, alla Strauss, CONTRO le classi sociali, contro l’isolamento in periferia, contro lo stagno odioso del villaggetto! Avrebbe potuto dire che chiocce, pendolarismi, classi sociali e villaggetti villani *implicano* che la gente “dia di fuori” e si metta ad ammazzare e ammazzarsi (Caminito narra anche un bellissimo suicidio, degno, fantasticamente, delle Rules of Attraction di Easton Ellis [rieccolo] o del film conseguente di Avary)… avrebbe anche potuto dire che la mentalità del villaggetto genera astrusa reazione violenta (dalla parti di Promising Young Woman)…
invece Caminito preferisce LASCIAR PERDERE il serial killer e mettersi a patteggiare per il villaggetto! Dire che «poverino, il villaggetto, alla fin fine, è bello, perché lì ci sono cresciuta… e io assolvo il villaggetto perché ci sono cresciuta io, non il mio personaggio di io narrante»…
cioè: tutto quello che Caminito non fa per migliorare la sua storia, lo realizza per peggiorarla!
Non usa l’obliquità della sua autobiografia per metaforizzarsi in serial killer assassino delle classi sociali, ma la sfoggia per smascherare una odiosa elegia dell’adolescenza nostalgica al di là di quel che è stato, al di là della mamma chioccia, dei ricconi beoti e della desolazione del paesello (arriva perfino nei pressi di quella cagata della cagate di Lady Bird)…
…per me è stato un colpo al cuore…

PRO
Mi rimane, per lo meno, un retrogusto di piccola enunciazione dei problemi di chi si laurea e non trova lavoro: retrogusto minuscolo ma ben inquadrato…

CONTRO
Un contro bello grosso è che finisce come finisce qualsiasi cosa che a me non piace:
finisce cioè con la coda di pesce di volersi lamentare ma, nello stesso tempo, nella velleità di non dare “la colpa a nessuno”…
finisce che tutti t’hanno fatto stare male, t’hanno anche fatto diventare serial killer ma non li puoi condannare perché sono i soli che conosci e per loro hai sviluppato perfino un affetto (che bojata!)…
finisce che se sei serial killer è sempre e soltanto stata colpa tua, ma te non ti vuoi incolpare facendoti maligna davvero (facendoti serial killer davvero), perché te sei te e allora “ragione” ce la devi avere per forza, e, da capo, sono stati gli altri a farti incazzare, quegli altri che però sono diventati la tua famiglia e quindi non li puoi mandare a cagare perché senza di loro non sai neanche pulirti il naso, o, peggio, senza di loro NON SAPRESTI DI CHI LAMENTARTI e NON SAPRESTI COME GIUSTIFICARTI DEL TUO ESSERE UNA ODIOSA SERIAL KILLER DE’ NOARTI SMINUZZATA E SENZA PALLE…
Mah…
sono effettivamente molto severo, ma questa velenosa impressione ce l’ho un po’ avuta…
non come l’ho avuta dopo La straniera, ma un po’ ce l’ho avuta…

Tirare le fila di questo dimidiante schema di pro e contro mi è impossibile:
L’acqua del lago non è mai dolce mi ha attirato per l’ottima fattura lessicale, per la struttura di montaggio splendida (piccoli episodietti brevi e stilettanti), per la capacità di costruire un flusso di coscienza senza esserlo (Proust docet?), ma mi ha distrutto per l’imperante e indigesta nostalgia autobiografica che insozza e spreca tutte le cose belle dello stile…
…poiché è una nostalgia che inonda di limo zuccheroso, e all’improvviso, una storia che poteva dirsi cattiva; poiché assolve con semplicismo tutto quanto; perché fa sprofondare nel banale anche le idee migliori…

però leggere si legge bene eh! e con tanta piacevolezza…
gli va dato atto…

Da non perdere il parere di Keep Calm and Drink Coffee

13 risposte a "«L’acqua del lago non è mai dolce» di Giulia Caminito"

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    1. No… sono indifferente al calcio… e sono quasi sicuro che non l’abbia scritta Ferguson ma un ghost writer…
      E certe autobiografie non sono “autobiografie” come queste di taluni scrittori (o presentatori) italiani, ma più “memoriali”, adatti allo studio storico della persona in questione: ho molto apprezzato i “ricordi” di William Friedkin, per esempio, soprattutto perché non hanno la pretesa di essere verità ma solo appunto ricordo e testimonianza parziale…

      1. Sono perfettamente in grado di riconoscere una narrazione non sincera e firmata da un ghost writer, e posso assicurarti che non è il caso dell’autobiografia di Ferguson. Grazie per la risposta, e buona settimana! :)

  1. L’autobiografia sugli anni ’00 e ’10 ancora mi mancava! Già non capisco tutto questo revival degli anni ’80 e ’90 (che, ammettiamolo, non erano così fighi), arrivare addirittura a intessere dei quadretti sull’altro ieri è davvero osare! D’altro canto, se il personaggio vive oggi, inevitabilmente il suo passato sarà negli anni 2000… ma capisco che non sia così interessante, non lo è molto neanche per me, se diventa il focus del libro. Mi piace molto quando critichi i libri con stile! 😁

    1. A me l’autobiografia seria, che non sia un mero «a me è successo questo, cioè quello che è successo a tutti i miei coetanei», risulta molto interessante: «Febbre» di Jonathan Bazzi è un’autobiografia, ma riflette sull’esserlo e infatti «informa»: non si celebra… «Il colibrì», per esempio, invece, si celebra (e un po’, a mio avviso, si celebra Carofiglio: ma qui si entra nei gusti e nelle idiosincrasie)…
      Ci fosse una bella autobiografia dei 2000-2010, ma, che ne so, un carabiniere della scuola Diaz che ci spiga come ha potuto cadere nella follia, o di musulmano vissuto negli USA post-11 settembre, o nell’Afghanistan dei Talebani e poi dell’occupazione americana, o nell’Iraq di Saddham e poi di Enduring Freedom, oppure l’autobiografia di un vecchio uomo d’affari di Hong Kong, tra la gestione inglese e quella cinese, fino ai giorni nostri di repressioni: quelle sarebbero autobiografie interessantissime!

      Non sarebbero «io per andare a scuola dovevo prendere l’autobus»… oppure «a 16 anni m’è morta la mamma»…
      …perché queste, con tutto il rispetto, sono situazioni che abbisognano di un’autobiografia più per conforto di chi scrive invece di chi legge…

      1. Sì, è un voler dare troppa importanza alla normalità. Con tutto il rispetto per la vita comune e insieme difficile di quasi tutti noi, non è proprio materiale stimolante da leggere. Tuttavia, va abbastanza, quindi forse stiamo sbagliando noi…

  2. A suo tempo avevo messo solo il like riservandomi di commentare dopo aver letto. Ho appena terminato, con tempismo perfetto sulla mancata vittoria… ma quando mai io sono sul pezzo… Ad ogni modo a parte questo preambolo who cares in realtà vorrei semplicemente concordare con la tua analisi, fatto salvo… lo scrivo se non mi togli l’amicizia 😊 che io invece nostalgica lo sono.
    Ecco io ho confessato. Lei… mah ora ci dormo su.

      1. La tua lettura anfibia è molto istruttiva, persino nobilitante. Anch’io ho vissuto gli anni della Caminito, ma ero sulla strada, dove le cose avevano una forma, e non erano una poltiglia ineffabile e vacua. E dove una mamma che non mi vuole comprare un romanzo perché lo ritiene frivolo poi non mi compra una racchetta. Sicuramente sbaglio io, ma alla sua schizofrenia preferisco la mia nevrosi

      2. Preciso!
        Perché se il terreno è il soggettivismo purissimo (alla Mahler), allora l’unico risultato è il muro contro muro della più squalificante «esperienza personale»!
        Un muro contro muro in cui per forza l’«io» ueueante e individuale prevale su tutto…
        e non credo faccia bene a nessuno!
        Fossi stata Caminito, l’avrei almeno fatta finire in galera, perché l’affezionarsi a quello che ci ha reso noi, anche se sappiamo essere stato cacca, mi sa di autoindulgenza del bimbominkia!

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