Che tutta l’esistenza sia soggetta all’entropia, e quindi vada verso il caos, è una cosa assai risaputa…
e anche che la realtà non esiste: la realtà è costruzione individuale del cervello di ognuno (vedi anche Elogio di EVA)…
…si sa tutti…
Invece, Claudia Durastanti sembra averlo scoperto di recente, e ne sia rimasta sconvolta e arrabbiata, tanto da volerci scrivere questo libro (che apprendo essere il suo secondo lavoro)
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Nell’ottica populista che nessuno può parlare delle cose che non ha vissuto e che si conosce una cosa solo se se ne fa esperienza, l’ottica, per capirsi, della maggiore importanza dell’Università della Vita rispetto agli studi, quella, anche, che fa dire «puoi lottare per i diritti dei lavoratori solo se sei lavoratore e puoi lottare per i diritti delle balene solo se sei balena», o perfino quella che dice «se in Egitto non ci sei mai stato, allora sei autorizzato a essere convinto che le Piramidi di Giza non esistano», col corollario del «io, da Granarolo a Genova, vedo l’Elba, e se la terra fosse davvero sferica non potrei vederla a causa della curvatura: sicché, io che vedo l’Elba da Granarolo sono la prova, io stesso col mio essere e la mia esperienza, che la terra è piatta!», in quest’ottica qui, Durastanti sceglie, naturalmente, di parlare di un solo argomento: se stessa…
E ne parla convinta di essere proprio lei stessa un argomento interessante…
E ne è convinta perché le sono occorsi vari accidenti, o, almeno, quello che, di norma, si ritengono accidenti…
- è nata ed è stata allevata da genitori sordi
- è cresciuta in povertà tra la Basilicata e i sobborghi stra-poveri di Brooklyn
- suo babbo era un po’ violento
- la nonna paterna era una pazzoide
- un parente da parte di madre ha avuto un tumore alla pelle
- sua cugina si drogava
- ha fatto un viaggio andato male in India
- ha vissuto un po’ a Londra ma gli è piaciuta poco
- ha studiato antropologia culturale ma s’è trovata male
- ha avuto una storia d’amore intensa che però è finita male (e sembra sia finita male proprio a ridosso della scrittura del romanzo)
- ha avuto un’esperienza lavorativa in cui ha capito di aver sostituito la figura paterna col suo capo ufficio… dal quale, però, alla fine si è distaccata perché ha compreso di essere da lui sempre considerata di classe sociale inferiore…
Tutto questo dovrebbe essere di qualche interesse anche per noi lettori… ma qualcosa si inceppa…
- sviscerare il problema di essere cresciuti da sordi potrebbe essere davvero stimolante… ma la cosa occupa, al massimo, due capitoli…
- la dicotomia italoamericana-lucana è una sequela di luoghi comuni: Durastanti sembra infastidita dalle descrizioni altrui scritte nel passato sul sud (Carlo Levi, Ernesto De Martino) e sugli italoamericani, ma non è che provi a rinnovare lo sguardo… Dice solo che gli italoamericani e i lucani non sono più quello che sembrano nell’immaginario, perché adesso hanno internet e la TV… Ma la cosa sembra quasi renderla triste…
Da una parte, cioè, stigmatizza i luoghi comuni del passato, dall’altra sembra rammaricarsi che quei luoghi comuni non ci siano più… - il babbo violento rimane sullo sfondo
- della nonna paterna parla in due righe all’inizio e in due righe alla fine
- il raccontino del tumore alla pelle finisce, curiosamente, per usare quei luoghi comuni sugli italoamericani (tutti superstiziosi, diffidenti, mafiosetti, racchiusi nel loro mondo di italiano inglesizzato che non capisce nessuno e sempre incapaci di imparare bene l’inglese)
- sulla cugina drogata ci si impegna in un unico capitoletto in cui si sviscera qualsiasi cliché sulla dipendenza, che conclude, perfino, con «la droga fa male» e «la droga la fornisce lo stato apposta per ammazzarti e marginalizzarti» (è senza dubbio vero, ma in che contesto stiamo parlando?)
- il viaggio in India è un capitolo unico inutile: conclude che l’India fa schifo solo perché lei c’è stata mentre gli giravano le palle…
- su Londra non si sa cosa voglia dire: sembra che sia andata a Londra solo per dimostrare che si può viaggiare senza mai sentirsi «a casa» in nessun posto
- sull’antropologia si è scioccata che gli studi antropologici siano spesso ibridati dalla letteratura (e chiunque abbia aperto la pagina 1 di qualsiasi manuale di antropologia culturale questa cosa la sa benissimo)
- il suo uomo gli è mancato molto quando si sono lasciati
- dopo che ha lasciato il lavoro è stata molto meglio (questi ultimi due punti sono prodotti «Grazia Alcazzo»)
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L’orizzonte culturale in cui si sviscerano questi punti sembra molto variegato, ma, in fondo, si legge che le basi vere dell’intelletto di Durastanti sono
- i telefilm americani anni ’90 visti in TV: Beverly Hills 90210, Un medico tra gli orsi
- telefilm degli anni ’00 visti streaming: Shameless (di cui non si preoccupa di informarci se ha visto la primigenia versione britannica del 2004-2013 o l’adattamento americano del 2011 tuttora in corso)
- film visti in TV da tutti quanti i nati nei suoi anni, e lei è nata nel 1984 (cita Lezioni di piano di Jane Campion; il Dottor Zivago di Lean; Panico a Neelde Park di Jerry Schatzberg [e il regista non lo cita]; Stand By Me di Reiner [che attribuisce direttamente a Stephen King]; Prima dell’alba di Linklater; Schegge di follia di Lehmann; Attrazione fatale di Lyne; The Master di P.T. Anderson; Taxi Driver di Scorsese; I guerrieri della notte di Hill ecc.)
- musica leggera (Leonard Cohen)
- alcuni studi antropologici letti con poca accortezza (i diari di Malinowski)
- la Storia infinita di Ende, di cui dice «la principessa rischia di sparire se i bambini non raccontano la sua fiaba e la magia che circonda la sua esistenza»: chiunque abbia letto quel libro non avrebbe mai usato il termine principessa per la Kindliche Kaiserin, e chi conosce il libro non potrà che trovare questa sinossi frutto di qualcuno che della Storia infinita ha letto al massimo la quarta di copertina…
- la musica di John Cage: anch’essa, però, sembra non conoscerla davvero perché non cita mai pezzi precisi, né lo zoccolo duro della filosofia aleatoria: cita solo le frequentazioni di Cage della camera anecoica di Harvard
- qualche romanzo qua e là (cita Nabokov, Dostoevskij e pochi altri)
Questo orizzonte culturale le fa dire, bene o male, solo due cose effettivamente importanti, che ripete molte volte:
- è a disagio con tutti i significati che non siano letterari
- è a disagio con la finzione
Però poi si rende conto che i significati non letterari e la finzione sono fisiologici di chiunque viva nell’entropia (cioè tutti) e di chiunque viva nella realtà creata dal proprio cervello (cioè tutti)…
Al ché, che decide di fare?
- fa un capolavoro di struggenza su questi temi, come hanno fatto in tanti (per esempio The Rules of Attractions di Roger Avary basato su Bret Easton Ellis)?
- fa un capolavoro di polisemie su questi temi, come fa il Lev Tolstój di Resurrezione (1899), Sonata a Kreutzer (1889) o Diavolo (1909-1911)? [tutti testi finiti nella requisitoria sui Libri contro la violenza di genere]
- la butta sul moralismo, anche abbastanza verboso e poco sopportabile, come certo Dostoevskij (di Delitto e castigo [1866-1867] o Memorie dal sottosuolo [1864])?
No…
Durastanti decide di non fare niente di tutto questo (pur cercando di avvicinarsi a Dostoevskij, ovvio: il metodo più facile)…
Dedice di LAMENTARSI e di affidarsi al VITTIMISMO
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I capitoletti da cui è composto La straniera sono tutti autoconclusivi e trattano il loro argomento non con una Stream of Conciousness ma proprio affastellando argomenti alla ‘ndocojocojo, come una conferenza fatta a braccio, o una lezione universitaria di un prof svogliato: un brainstorming pigrone e lassista…
La voce di Durastanti, nonostante sia lì a dirti che non è sicura di niente, ti tramortisce comunque con pistolotti (davvero alla Dostoevskij) petulanti e indolenti: sembra una che sta in poltrona a non fare un cacchio che però rimprovera te di stare facendo tutto male…
Dice che il sud ormai è come tutti gli altri posti ma poi ne piange, e dà la colpa a internet che ha distrutto le menti (originale, soprattutto detto da una che, è evidente, nella vita ha visto solo e soltanto la TV)…
Dice che il sud ha una mentalità mafiosa ma che, in fin dei conti, è quella mentalità a preservarlo strano e strano è bello: sicché quelli che vogliono studiare e lavorare al sud, anche in mezzo alla mafia, sono da premiare perché sono una poesia del rimanere uguali, e rimanere uguali è tanto bello per coloro che sono a disagio col mondo…
Dice di non avere coscienza di classe, ma poi si incazza se il capo-ufficio la reputa povera: e dice, comunque, che la politica è una cavolata, perché ognuno è libero sia di rimanere al sud sia di votare i pecoroni leghistici, e le cose non cambieranno mai, perché tanto l’entropia è di destra… e ci sta anche, ma almeno piangere per questo? no: si piange solo per le cose di cui si ha esperienza, e dell’entropia non se ne ha, secondo lei… se ne ha solo una sensazione…
Niente è buono, ma meno male che non lo è, sennò non potremmo lamentarci… e il lamentarsi è il fondamento dell’individuo, l’unica cosa che l’individuo può fare che sia effettivamente propria (l’unica cosa tua sono i tuoi lamenti: un po’ lo dice anche Ozpetek)
E siccome nulla è buono e tutto è cattivo non c’è comunque da fregarsene per nichilismo (come Bukowski o Palahniuk), no: c’è da disperarsi…
…e non c’è da disperarsi per titanismo (come Leopardi o Alfieri) ma solo per glorificazione di autoinflitto martirio: appunto il vittimismo…
Va male, ma Durastanti ne sembra contenta, e se ne lamenta solo perché quel “male” colpisce lei e i suoi familiari… non è un male cosmico… o se lo è non ci si può fare niente, solo constatarlo, ma la constatazione non è intelligenza, né consolazione, né costituisce una ribellione (della volontà o della Ragione), è solo attonito sgomento, quasi apatia, nullità, senza neanche la consapevolezza sarcastica del nichilismo ma solo la pedanteria del falso moralismo: una concezione di vita annullante quasi infantile, alla Hello Spank: non vivi, e qualsiasi cosa tu faccia non vivi lo stesso, sicché è bene non vivere lamentandosi di non poter vivere…
…alla fine ti rendi conto che La straniera di Durastanti è la TAUTOLOGIA clinica della depressione più qualunquista (perché davvero priva di diagnosi di depressione), quella depressione che tutti sono convinti di avere (smascherando ignoranza della malattia), dietro la quale mascherano la propria inettitudine, a cui non dànno neanche la nobiltà letteraria di un Italo Svevo, ma solo la plastica rappresentazione, in un libro frammentario, del proprio vomito svogliato interiore…
Più che un libro, La straniera è una bacheca di Facebook della gioventù strinata dei nati dopo il 1980…
differisce da Willy Pasini e Fabio Volo solo per il segno negativo, ma è pieno degli stessi topos dell’ovvietà… tutti dicono: «Il cielo è celeste perché sì»
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Negli anni ’50 il post-moderno era Truffaut che citava Hitchcock: nelle macerie della Seconda Guerra Mondiale, il passato erano frammenti che affioravano ed erano un oggetto prezioso con cui tornare a vivere: quel frammento era vita esso stesso…
Negli anni ’70-’80 il post-moderno erano Scorsese, Spielberg e Zemeckis che citavano ancora Hitchcock, Tex Avery, Frank Capra e John Ford: nelle macerie di Nixon e di Reagan, il passato erano frammenti che affioravano ed erano ritenuti ancora preziosi ma non da vivere, da mettere in un museo e rimirare per cultura, per crescita personale…
Negli anni ’90 il postmoderno era Quentin Tarantino che citava Truffaut, Sergio Leone e Sergio Corbucci: nelle macerie del neoliberismo sfrenato, il passato erano frammenti che affioravano e che si conservavano per puro gusto e diletto, per puro edonsimo ludico…
Ancora negli anni ’90 il postmoderno era Isabella Santacroce che citava a caso chiunque: nelle macerie del berlusconismo, il passato era solo maceria, con cui disperarsi per una perdita, con fini struggenti (come Avary)
Adesso il postmdoderno è Claudia Durastanti: il passato non si conosce, le macerie della crisi Lehmann Brothers del 2008 sono un’atrocità senza senso di cui non si capisce nulla e con cui non ci si balocca, né ci si dispera: ci si limita a guardarle, anche compiacendosi di non capirci niente, perché è l’inconsapevolezza la misura dell’Uomo, che torna a essere animale incapace di provare qualcosa, un po’ come le pecore del Canto notturno del pastore errante dell’Asia… e anche di quello non si è capito nulla, perché Leopardi dice che anche le pecore partecipano al titanismo a modo loro (ed è solo il pastore a non capirlo)… secondo Durastanti no: c’è entropia, realtà encefalica individuale e va bene così o non va bene così a seconda di quanto mi convenga ai fini della mia “lamentina” vittimista…
In altre parole: al mondo non c’è niente…
…solo io…
e io faccio, dico, guardo e piango cosa e di cosa mi pare, senza logica,
solo affastellamento di esperienze disordinate dell’Università della Vita…
come non trovarlo odioso?
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probabilmente è un libro che non ho capito e che quelli della mia generazione (io sono nato nel 1982) invece adoreranno, come succede per i postmodernismi simili di J.J. Abrams e di Netflix, ugualmente qualunquisti e inconcludenti, ma adorati da tutti…
Gesù! E io che l’ho messo in lista soprattutto per il discorso sordità, mò che faccio?
Dunque… gli stimoli sono tanti, tanti i momenti in cui ho riso e altrettanti quelli in cui ho storto il naso (per te, non per lei: cfr. Dostoevskij, o l’inesistenza della realtà oggettiva, o… ma in ambo i casi lo storcimento di naso nasce dalla mia lettura della tua analisi in base a come ti vivo io. Magari leggendola poi sarei anche d’accordo, sempre tenendo conto che per ora di Dosto nulla ho letto – ma la critica mi urta lo stesso).
Ovviamente in tutto questo discorso mi son persa, perché mi viene spontaneo imitare il tuo stile così come quello di altri che leggo… lo vedi… punti di sospensione “come se non ci fosse un domani” (per citare un luogo comune contemporaneo).
Volevo dire che il tuo post è intrigante, e nonostante mi abbia (anche) fatto sbuffare, mi fa pensare che forse La straniera lo leggerò a brandelli, già però con un tantino di nausea.
Ma è proprio l’autrice che definisce l’entropia di destra? E’ stato il passaggio più spassoso.
Per fortuna no… Ma l’ho dedotto io…
Ti prego leggilo e “spiegamelo” come mi stai spiegando i dogmi cattolici…
Cioè molto alla buona?
Ma certo 😁
Toh, vado ad aggiungerla alle prenotazioni. Chissà quando mi arriverà. Adesso la curiosità è salita, in compenso è scesa la tensione che ho sempre quando leggo di argomenti che mi rimestano.
Vedremo.
Sei riuscito a farmela stare sulle balle senza manco averla toccata: anche questa è letteratura!
Siccome sará una delle mie prossime letture, torneró alla tua recensione dopo averla letta ;)
Nick procedo nella lettura solo grazie a questa recensione che utilizzo per riprendermi dalla lettura. Leggere questa (non saprei definire neanche cosa è).. e’ proprio come farsi vomitare addosso da qualcuno
Eeeeew!
Ciao Nick l’ho finito ieri sera. La tua analisi nella recensione è perfetta. Aggiungo alle incoerenze: odia i memoir e ne scrive uno. La parte centrale del libro sono una serie di post di Facebook allungati (sai di quelli che vedi in giro da chi si sente Francesco Merlo e conclude con meditate gente meditate.. lei almeno ha il buon gusto di non chiuderli in questo modo). Si accorge di vivere in un paese classista quando arriva all’università e poi al lavoro. I problemi sono due: o la Val d’Agri (non molto lontana, circa 200km, da dove sono nato) è stata la realizzazione plastica e buona (non si riscontrano gulag e campi di rieducazione) del socialismo marxista, oppure l’autrice viveva in un mondo veramente tutto suo (più la seconda).. non percepire il classismo in Italia, specie al Sud, è come andare ad una partita di calcio e non vedere la palla. Parla sempre di empatia e la pretende, quando le capitano in aeroporti una coppia di sordomuti con un bebe’ che le chiedono aiuto, li bidona (spero vivamente che questa cosa se la sia inventata). Ad un certo punto, inizia a citare ad ogni piè sospinto.. o avrà visto qualche video su Carmelo Bene, oppure avrà letto di sfango qualche romanzo di Eco. Se ha successo il motivo è semplice. Viene letta da tutti coloro che amano leggere queste storie di continuo lamento, sfruculiando in loro l’istinto italocattolico dei crocerossini. Molti lettori saranno sicuramente settentrionali (donne), cui piace leggere queste storie di totale aberrazione del Sud ed avere il loro ritorno emotivo confermate (salvo poi fare le vacanze in Salento o in Sicilia durante la pandemia), coetanei che si ritrovano nelle citazioni di serie TV e film del periodo e in questo profluvio di pensieri sconnessi e guizzi alla D’Agostino tipo: aveva lasciato il futuro (New York) per perdersi nel passato (Basilicata). Ad alcuni sembra uno stile originale. Spesso si dice di chi ha poco talento non solo nella scrittura.
Fritz, siamo perfettamente consentanei!
Tra l’altro vedo che su Twitter Durastanti spesso blatera del fatto che tra scrittore e traduttore dovrebbe esserci quasi identità, non sia mai che un uomo bianco di Tivoli possa tradurre le poesie di una donna nera di Trapani (e ovviamente non va bene neanche se a tradurre la donna nera di Trapani è una donna nera di Palermo: tra Trapani e Palermo c’è troppo scarto culturale: e poi litigano noi livornesi ché prendiamo in giro i pisani! E ovviamente non va bene che una donna nera traduca le poesie di un uomo bianco: difatti le poesie di Walt Whitman le può tradurre in turco solo lo stesso Walt Whitman, sennò c’è scarto culturale!)…
Ma nonostante questi Tweet, Durastanti ha tradotto “Animal Farm” di Orwell per la nuova edizione Garzanti successiva al passaggio di Orwell al pubblico dominio: come avrà fatto a scavalcare gli scarti culturali?
Poi vedo che Einaudi ha fatto introdurre a Durastanti “La bella estate” di Pavese! Chissà come lo spiega?
Certamente sarò troppo crudele, e sarò felice di leggere un altro suo lavoro: ma ormai la “prevenzione” è tanta!
Si siamo d’accordo. Oramai l’abbiamo inquadrata, anche perché lei ha il dono di palesare il tutto. Odio gli steccati quando li pongono a me e me ne lamento, ma io li pongo agli altri, ma i miei sono migliori perché io ho letto tanto e girato tanto nel mondo. Il Sud è un’enorme fucina di questi personaggi. Purtroppo. Non ho idea di cosa possa scrivere una così su Pavese. Si limiterà al solito luogo comune sulle Langhe che lo hanno influenzato o magari spero che capisca che un ragazzo di quelle terre dimenticate dal Fascismo, regalo’ all’Italia le traduzioni di grandi firme della letteratura americana (pagando con la propria pelle). Ma dubito.