Un paio di notarelle sulla prima della Scala 2021

Di Macbeth si è parlato fin troppo:
è la n. 21 di Operas III
ci sono le impressioni di Muti al Maggio
e c’è la recensione della versione ’47 di Auguin a Parma

A Parma ci andò la RAI a riprendere, con regia di Arnalda Canali…
e a Canali la RAI ha affidato il Macbeth scaligero di quest’anno…

Si è osservato con amici di Twitter che, a parte le proposte pucciniane (molto salutari, poiché arrivate dopo anni di direttori musicali antipucciniani: Abbado odiava Puccini [favorì solo La Bohème di Kleiber e Zeffirelli nel marzo del 1979, una Tosca di Faggioni e Seiji Ozawa nell”80, e accettò la prima della Turandot di Maazel e Zeffirelli nel 1983], Muti ha presentato in prima persona solo Tosca e Manon Lescaut e mai per una prima, Barenboim nulla), le scelte di Riccardo Chailly per la prima sono del tutto in linea con quelle che operò Claudio Abbado, il maestro scaligero tra 1968 e 1986 che fu suo insegnante…

A parte Puccini, Chailly ha presentato o ha pensato di presentare:

  • Otello: se ne parlò dopo la Tosca del 2019… fu un’opera che Abbado approvò per farla fare a Carlos Kleiber e Franco Zeffirelli nel 1976 (è nel Bilancio di Zeffirelli);
  • Lucia di Lammermoor: era prevista con Yannis Kokkos per il 2020, ma non fu possibile a causa della pandemia, al suo posto andò uno show di Davide Livermore (di cui si parla di sfuggita nei cenni degli streaming durante il lockdown): con Lucia, Abbado debuttò come maestro scaligero nel dicembre 1967 [da gennaio ’68 sarebbe diventato maestro dell’orchestra: direttore musicale del teatro divenne nel 1972];
  • Boris Godunov: è previsto per il dicembre 2022, e non si sa ancora il regista… quella del Boris fu una delle prime più celebrate di Abbado, lavorata con Jurij Ljubimov nel 1979…
  • Macbeth: fu approntato da Abbado e Giorgio Strehler nel 1975 (ne esiste una ripresa televisiva della RAI di Carlo Battistoni; siccome le riprese ufficiali RAI della Scala iniziarono per l’Otello di Zeffirelli l’anno dopo, è probabile che il video di Battistoni sia stato mandato in onda solo nel 1979: sto ancora indagando in proposito);
  • il Verdi “primigenio”: Chailly ha fatto Attila e Giovanna d’Arco… è vero che Abbado non affrontò mai direttamente quel Verdi prima maniera, ma durante la sua tenuta fece fare prime con l’Ernani a Votto, con i Vespri a Gavazzeni, e ci furono ben due prime per il Simon Boccanegra (però nella sistemazione 1881) di Strehler, nel ’71 e nel ’78;

Se Chailly si mettesse a proporre Rossini, la continuità con Abbado sarebbe quasi “totale” (anche nei suoi esordi in disco, subito dopo l’apprendistato con Abbado, Chailly si dedicò a Rossini proprio sul solco di Abbado, che dal 1972 si erse a vero vate del Rossini comico, con Barbiere, Italiana in Algeri [che divenne prima della Scala con Jean-Pierre Ponnelle nel 1970], Cenerentola lette in tutte le salse di dischi, allestimenti e film: Chailly esordì in disco con la Decca con un Guillaume Tell nel ’79 e da lì inforcò subito anche lui Barbiere e ouvertures rossiniane)…

Inizialmente, si disse che Chailly avrebbe proposto il Macbeth del 1847…

era una scelta in linea con la filologia, che Chailly ha tanto voluto in Puccini:
ha voluto la versione della prima romana per Tosca (diversa per diversi dettagli dalla Tosca standard) nel 2019 (se n’è parlato); e per Fanciulla del West nel 2016 ha sbandierato una partitura pucciniana precedente ai ritocchi pubblicati da Toscanini e Ricordi (si riesce a percepire qualcosa di tutto questo nel farraginoso La frontiera) [anche in disco, Chailly tenne a debutto quella che credo sia ancora l’unica edizione critica di Puccini, La Bohème curata da Francesco Degrada: fu incisa da Chailly proprio con la Scala, al Piccolo Teatro Studio, per la Decca, tra 16 e 29 ottobre 1998]…

una filologia che sembrava oltranzista, in linea con le scelte di Riccardo Muti, maestro scaligero dal 1986 al 2005 (che operò scelte del tutto diverse da Abbado, tra cui anche quella di quasi escludere Chailly dalle collaborazioni, che sotto Abbado invece ci furono), ma che poi non è risultata per nulla effettiva: la Turandot del 2015, Chailly la fece senza alcuna filologia (sì, fece il finale di Luciano Berio, che lui stesso eseguì per la prima volta ad Amsterdam nel 2002, ma Nessun dorma è tuonato con le lunghezze di tradizione) e anche questo Macbeth è velocemente passato dalla versione del 1847 a quella del 1865, sì con edizione critica di David Lawton, ma con l’incorporo dell’ultima aria di Macbeth, scritta per il ’47… una sistemazione che, guarda caso, aveva proposto proprio Abbado nel ’75!

Chailly, quindi, appare filologo oltranzista solo quando gli pare…
…esattamente come Abbado: feroce nel volere Rossini riflettente alla lettera le edizioni critiche di allora (di Alberto Zedda: edizioni, tra l’altro, nel frattempo superate) e iroso nel presentare il Boris di David Lloyd-Jones (vedi n. 25 di Operas III) a tutti i costi, ma poi molto aperto all’ibridazione testuale per Verdi e capitolante perfino con Rossini (nel 1992, al Teatro Comunale di Ferrara, incise un disco del Barbiere di Siviglia in cui permetteva un soprano di coloratura nel ruolo contraltissimo di Rosina, e scritturava perfino Plácido Domingo come baritono, quasi per la prima volta: i filologi rossiniani andarono in bestia!)

È un Macbeth, inoltre, che replica in tutto il cast e l’allestimento di Tosca del 2019… inoltre, Chailly dirige in prima persona per la settima volta consecutiva…

Abbado, abbiamo visto, permise a molti altri direttori di dirigere la prima… anche Barenboim lasciò per due volte il posto a Gatti… a fare tutte le prime fu Riccardo Muti: dal 1986 al 2004, la prima la diresse solo Muti… e la cosa suscitò più che un malcontento…

Chailly vorrà fare come ha fatto Muti?

Questo Macbeth consacra per la quarta volta consecutiva Davide Livermore come regista…

una continuità che evoca un passato ben poco carino:
durante il fascismo, Giovacchino Forzano allestì 6 prime di fila (dal 1923 al 1928)…
Mario Frigerio ne fece 6 tra ’32 e ’37, poi altre 6 tra ’39 e ’44…
nel dopoguerra, Margarete Wallmann fece ’57, ’58 e ’59; poi ’61, ’64, e ’65…
Giorgio De Lullo fece di fila ’69 e ’70…
Giorgio Strehler ha fatto di fila ’80 e ’81…
Luca Ronconi ha fatto di fila 2003 e 2004…
da allora (il 2004 segnò la prima del restauro del Piermarini dopo due stagioni agli Arcimboldi) non si è più azzardato nessuno di affidare la regia alla stessa persona due volte di fila… fino a oggi…

per i cantanti, invece, molte volte la Scala ha “incoronato” le stesse persone: a parte il passato con Callas, Tebaldi ecc., Riccardo Muti cercò di mettere dappertutto cantanti come Maria Gulegina, Cheryl Studer, Carol Vaness, Roberto Alagna, Chris Merritt, Giorgio Zancanaro, Renato Bruson e Leo Nucci…
che Chailly faccia lo stesso con Meli, Salsi e Netrebko non è quindi un grosso problema in generale…

…è certamente un problema per noi altri spettatori, costretti a sentire sempre la stessa gente…

o meglio: gli stessi divi…

i divi non sono mai granché da nessuna parte, né al cinema né in teatro né alla Scala…
Netrebko è carina e grande attrice, ma certi acuti non ci sono più e la precisione di trilli e crome è sparita già diversi anni fa…
anche Salsi è un ottimo attore, ma anche lui recita con una verve che spesso strazia i tempi musicali…
Meli è un robot quasi pavarottiano: una fotocopiatrice di acuti sparati con agile facilità tutti uguali…

non si capisce perché una come Saioa Hernandez non sia stata preferita per fare Lady Macbeth…

o meglio, lo si capisce: è stata preferita Netrebko solo per divismo… per favorire quello star system secondo cui conta più il nome di tutto il resto; il nome che vale più di tutto, il nome che fa sopportare ai loggionisti robe che se fatte da altri sarebbero additate come atroci…

Netrebko e Salsi sono sì stati bravi, ok, ma sono stati invitati per chiamare un pubblico sensibile allo star system, quello che si muove solo se vede un volto che conosce sul cartellone, non sono stati chiamati per la loro eccezionalità vocale o attorica… eccezionalità che hanno sfoggiato, ok, ma che hanno presentato piena di difettucci, sciocchezzuole, imprecisioni…

sono cose che sono umane, ma che fanno allora un po’ dire «ma se si deve chiamare questi solo per il nome, e poi mi storpiano microscopicamente ma sensibilmente l’opera, non era meglio chiamare un giovane sconosciuto che me la faceva perfettissima?»

Anche di Livermore oramai non se ne può più…

nonostante i discorsi programmatici (esposti nelle interviste) sui dittatori sanguinari da esorcizzare proprio grazie ai capolavori come il Macbeth di Verdi, il suo allestimento tutto décor, suggestioni cinematografiche (le scene a metà tra un film di mafia coreano, Blade Runner e Il conformista), e tentati frame leitmotivici (il volto di Banco e il gesto dell’uccisione di Duncan) si frange nel nulla, nel puramente illustrativo, nel poco pregnante…

è un florilegio di espressioni caricaturali, di gestica esagitata sentita come “possibile” invece che come espressionista, e lì è il fallimento: fosse stato qualcosa di “onirico”, allora ok, ma invece Livermore ci crede davvero che la gente possa fare le smorfie che fa fare a Netrebko e Salsi: ma sono invece smorfie che cadono nel ridicolo involontario e sconquassano la metafora del regime dittatoriale che si nasconde tra i riccastri, poiché con quei versi facciali e quelle movenze scattose che riccastri sono? sembrano più persone che fanno finta invece di essere riccastri dispotici…
Trintignant nel Conformista era efficace perché era fermo e glaciale nella sua crudeltà…
e gente come Mickey Rourke o Rosario Dawson sono efficaci in roba del tutto “di fuori” come Sin City
ma Netrebko e Salsi sono esagitazione che è illustrativa invece che espressiva, è esornativa invece che sostanziale: è artefatto fintoso invece che recitazione!

E quindi anche tutto l’allestimento quasi “filmico”, ricchissimo, pieno di dozzine di cambi scena proibitivi, di macchinerie ostentate, di virtuosismo tecnico incessante, risulta quasi vuoto: una vetrina, un presepe di sfoggio di know how privo del tutto di know why

anche perché è una macchineria così complicata che non riesce a risolvere in nessun modo, se non nei modi più vieti e convenzionali, la marcetta di Duncan e il finale I (se hai i cambi scena e le proiezioni come mai tieni tutti fermi, anche le macchine, nel finale I? perfino il non ottimo allestimento di Harry Kupfer alla Staatsoper unter den Linden di Berlino, nel 2018, con un Barenboim ormai incapace di andare a tempo, riesce a scovare intenzioni nella musica e li dà a un altro oramai solo attore e più cantante, Domingo, perché ne faccia un gesto degno di senso [Macbeth che prende la divisa di Duncan, con sconcerto degli astanti, in concomitanza con gli scoppi musicali di Verdi]: cose opinabili e discutibili, ma almeno presenti!)

per rendere Macbeth anti-dittatura occorrevano davvero i cambi scena moltiplicati quanto inutili?
o meglio: quei cambi scena sono sostanziali oppure anche quei cambi scena sono solo pittogramma privo di senso come i ghigni, i gesti inconsulti e i soprammobili a milionate esposti nel décor?

e gli schiaffoni, il digrignamento dei denti, le parole parlate invece che cantante cosa sono?
sono necessari al messaggio o sono solo confezione, cornice, ninnolo, oggettino…

Mah…

C’è chi sbraita a vedere un Macbeth nazista o salviniano/berlusconiano, perché sarebbe didascalico, e ok: ma davvero sono meglio questi anni ’20-’30 stilizzati da Livermore, dove conta più la pompetta idraulica per far alzare il palco invece dei movimenti?
davvero è meglio questo Livermore che dà più importanza alla videoproiezione inutile (non significa niente e non tenta neanche di ravvivare le streghe o le apparizioni aruspicesche o il pugnale che appare o il fantasma di Banco) che alla fluidità del racconto?

Boh…

Dai commenti su Twitter di chi ha visto lo spettacolo dal vivo, capisco che avere i microfoni RAI posizionati sui piatti o sui fagotti invece che ben diffusi sull’orchestra (piatti e fagotti che hanno triturato completamente la concertazione) non mi ha aiutato a comprendere il lavoro di Chailly…

che per me è stato quindi del tutto privo di senso…

solo in “Una macchia è qui tuttora” ho sentito una lavoro interpretativo musicale che adiuvasse la tensione… un lavoro interpretativo, per altro, del tutto mutuato da Abbado (e rieccoci)…

nel resto, anche nel finale I, che dovrebbe farti accapponare la pelle, ho sentito tempi comodi, lenteggianti, una direzione piena di mancati attacchi, di erroretti vari (il coro usciva dai ranghi spesso e volentieri), un andamento liscio, scontato, quasi noiosetto…

“Fatal mia donna” sarebbe scritta per rendere la concitazione notturna di un delitto: con Livermore e Chailly è diventata una rendicontazione di boccacce e una computisteria di ritmi continui invece che mobili e tensivi…

Boh…

Anche nella sua lettura in studio del 1986, fatta per il film di Claude d’Anna, Chailly era risultato più narrativo e compatto…

qui alla Scala, mah…

sembrava una buona prova generale invece che la prima della Scala!

Rimane la regia televisiva…

fino a poco tempo fa, a me Arnalda Canali ha sempre fatto piangere… e mi fece piangere proprio con il Macbeth ’47 di Auguin da Parma

poi però la trovai ottima nella Salome scaligera, ancora con Chailly

qui devo dire che fa quello che per ora è il suo capolavoro…

Sulle regie televisive di opera e musica classica devo ancora scrivere un qualcosa di ragionato (e non lo farò mai)…

ho scritto cenni in La frontiera (ma non credo ci si capisca niente), nel bilancio di Zeffirelli e nel Beethoven di Nézet-Séguin

Riassumendo molto i miei gusti, ribadisco che io detesto l’idea di fare della ripresa d’opera live un film che racconti la trama dell’opera: tutti i tentativi della RAI (di Canali, Patrizia Carmine, Paola Longobardo, Andrea Dorigo, Emanuele Garofalo ecc.) in tal senso li ho sempre trovati fastidiosamente puerili…

poiché, per me, la regia dell’opera live dovrebbe essere anche documentazione di ciò che avviene in teatro… per cui vorrei qualcosa di molto diverso dalla configurazione che Brian Large ha imposto da molti anni allo spettacolo d’opera… vorrei stacchi sul direttore (proibiti da Large, che è uno che va dietro allo star system del cantante: inquadra solo il cantante), per esempio… o magari tentativi di movimento di macchina (proibiti da un Large schiavo del solo stacco)… tutte cose che ho visto fare più a Zeffirelli (o al Ronconi prima maniera, nelle trasmissioni del Maggio negli anni ’70) che ai professionisti della scuola largiana che si sono occupati di Scala (Bailey, Montell, Cavassilas ecc.);

per me la dissolvenza alla Coppola (l’inizio di Apocalypse Now) è l’ideale per rendere le diverse linee melodiche della musica, e l’ho vista fare solo a Carlo Battistoni (e proprio nei suoi Macbeth: di Abbado/Strehler nel ’76 e di Muti/Vick nel ’97);

e non disdegno alcuni shots che può avere solo la tv, magari sul dietro le quinte…

per me oggi le regie di certa scuola francese di François Roussillon, di gente come Andy Sommer, Don Kent o François-René Martin le trovo ottime… adoro i video di Benedict Mirow per le orchestre monacesi… e non mi dispiace l’espertissimo Tiziano Mancini: anche se è spesso piattissimo come lo era Large, ogni tanto ha qualche guizzo…

alla RAI, la regista che ho visto più aperta a simili idee è Francesca Nesler…

Per questo Macbeth, Arnalda Canali fa di tutto per fare gli shots solo per la tv: e sono shots che avevano davvero senso, erano parte integrante dell’allestimento di Livermore, già di per sé inglobante i video (in modo simile a come ha fatto Michieletto per il Rigoletto dal Circo Massimo)…
Netrebko in bilico sul cornicione e il momento del brindisi erano illustrati in tv con inquadrature avulse dal teatro, ed esistenti (e significanti) solo per lo spettatore a casa…

la cosa mi ha molto convinto…

c’erano anche tanti shots dall’alto (alla De Palma), che Canali adopera spesso, e mi funzionano come certi shots dalle quinte operati da gente come Kent o Sommer…

sono cose che mi piacciono… perché aggirano la velleità di fare un film della trama dell’opera con inventiva: si fa magari sì il film della trama ma con un materiale più vario rispetto alla ripresa frontale imposta da Large (e imposta, alla Scala, da Patrizia Carmine): una ripresa frontale che produceva una ridicolezza di voglia di film cozzante con la mancanza di controcampi (se ammetti solo la ripresa frontale come cacchio fai a fare i controcampi? e senza controcampi cosa ti atteggi a fare a film? fai solo ridere!)…
Con gli shots appositi, diegetici, solo per la tv, almeno Canali ci prova meglio che può a fare qualcosa che possa somigliare a un film…

non male, per esempio, lo zoommone sul “gran dio” del finale I (davvero alla Sommer): ha dato alla scena una tensione che Chailly non è riuscito a dare…

ma ci sono anche tanti difetti…

il fare shots solo per la tv avrebbe potuto anche funzionare come documentazione invece che soltanto per diegesi: il direttore non si è mai visto (Battistoni inquadrò sia Abbado sia Muti nel finale I; e perfino Large, contrarissimo a far vedere il direttore, inquadrò Sinopoli nel finale I di Ronconi alla Deutsche Oper nell”87!), per esempio, e alla lunga gli interventi digitali sugli shots diegetici livermoriani stancavano…

E per quel che riguarda i movimenti di macchina, l’impianto di Canali continua a fare acqua: le carrellate laterali sulla fila del coro erano ridicole…

non si deve essere però troppo severi, perché era da decenni che non vedevo una prima della Scala così ricca di idee registiche televisive (anche se non tutte buone, erano quasi tutti “nuove”)…

la cosa fa ben sperare!

12 risposte a "Un paio di notarelle sulla prima della Scala 2021"

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    1. Non la conoscevo per nulla e me l’ha fatta notare una storia Instagram di Caterina Piva (un mezzosopranino tanto simpatico che canta spesso a Firenze), di cui deve essere o amica o allieva… è stata effettivamente perfetta: sono ruoli di minuscola durata inversamente proporzionale alla loro difficoltà (piccini piccini ma infernali infernali)!

  1. per me questo è arabo
    ma mi pare di capire che il cinema a differenza del teatro con la grande varietà di produzioni trasportabili per il mondo pur avendo anch’esso i suoi divi riesca ad offrire maggiore varietà artistica

    che ne pensi?

    1. purtroppo credo di no:
      il cinema di divi ne ha fin troppi e allo “star system” accorpa tragicamente uno “studio system” oggi un pochino meno pressante nell’industria dell’opere lirica (e questo perché nell’opera lirica e nella musica colta le grandi etichette discografiche sono solo 3, e quindi diciamo che la concorrenza non esiste, mentre in cinema le logiche di mercato tra le major hanno ancora mefitici effetti)…
      in cinema, la compresenza di star system e studio system produce gli stessi prodotti ciclicamente da quasi un secolo, anche per via di una struttura di generi francamente opprimente…
      non so dove tu veda la “varietà artistica” nel cinema odierno (soprattutto quello industriale), del tutto saturato dai supereroi da una parte e da uno stanco post-modernismo nostalgico dall’altra…

      il teatro e l’opera lirica non se la passano certo bene (visto che perfino La Scala ricorre allo star system più vieto), ma almeno, ogni tanto, sono ancora in grado di farci riflettere sul presente: cosa che al cinema capita davvero rarissime volte e in opere di grandi maestri quasi fuori dal mercato…

      1. E il cinema d’autore e indipendente riflette esattamente come il teatro fatto bene (non mi sembra che rifletta di più o che sia più vario)

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