Le case del malcontento [spettacolo di Murmuris & Atto Due] al Materia Prima Festival

Altra prima nazionale al Materia Prima Festival

Basato sul romanzo di Sacha Naspini (2018), adattato da Simona Arrighi e Luisa Bosi, per la regia di Arrighi, lo spettacolo vede 5 attori (Bosi, Laura Croce, Sandra Garuglieri, Francesco Mancini e Roberto Gioffré) agire, per la seconda volta in questo festival senza microfoni, ballando e saltellando su una musica “passacagliosa” (alla Šostakovič più stranito), sul palco spoglio ma non vuoto, in cui campeggiano tre lampioni in diagonale (dalla prima quinta a sinistra sul proscenio all’ultima a destra sullo sfondo) con pochi accessori adatti a sedersi…

I 5 attori insieme rappresentano la folla degli abitanti delle case del malcontento, borghetto mefitico di una immaginaria gotica maremma, che non si vede ma che è evocato e rappresentato dalle bacchiche danze degli interpreti, che si muovono insieme in una coreografia “concertata”, che sembra addirittura obbedire alle idee di Nižinskij/Stravinskij (vedi le Musiche per la primavera e Regia regia) e li fa muovere come se invece che 5 fossero una persona sola multiforme…

mentre danzano (un po’ come in Godspell) producono camminate, dànno corpo ai pettegolezzi, e impersonano perfino alcuni scorci del paesello (tipo la chiesa)…

il loro ballare sembrerebbe uno sfoggio attoriale fine a se stesso, però poi, come in certe rappresentazioni del Decameron (vedi le Musiche per le epidemie), un danzatore si stacca dagli altri e diventa un personaggio che racconta la sua storia: monologa…

anche il monologo, sulle prime, sembra stantio e rivisto (e in questo festival, la struttura monologante ha un po’ distrutto i due spettacoli precedenti: Forse una città e De los muertos), ma essendo desunto dal romanzo di Naspini, quel monologo è vera narrazione, sì alla Decameron, ma anche alla Spoon River, o alle mie adorate Rules of Attraction di Easton Ellis: il monologante non si abbandona al filosofeggiamento né al cabaret né all’enumerazione boomer dei propri pensieri grulli, ma produce dialoghi, scene, azioni, movimenti e storie: è un monologo che è quasi più un qualcosa alla Eschilo/Sofocle, o alla Trovatore: è uno che parla ma parlando evoca immagini, fatti e conseguenze oltre che semplici pensieri e/o letteratura: quel monologo è racconto e non pensiero, è vicenda e non elucubrazione: è una narrazione che sta per gli eventi e stando per gli eventi è evento essa stessa: siamo lontani, quindi, dalla roba che io non sopporto mai (cioè le litanie di una voce che si chiacchiera addosso, alla Céline o alla Dostoevskij)…

Sul solco di Rules of Attraction, il personaggio monologante accoglie nel suo punto di vista anche gli altri personaggi, che si vedono l’un l’altro: ognuno è personaggio nelle storie dell’altro…

Le storie di ognuno sono spesso iperbolici pasticciacci brutti, velatamente inconsci ed edipici (con genitori cattivi, antri oscuri di crudeltà, voglia eterna di vedetta), figli putativi di Pirandello o Ammaniti (quella che rapisce e tiene in cantina per chissà quanti anni la moglie del dottore; il dottore che odia i pazienti e quindi non li cura facendo in modo che muoiano lentamente; l’ortolano dall’infanzia difficile che mette il breccino su una curva pericolosa affinché le auto vi sbandino ecc. ecc.), atti a delineare un ritratto del paesello del tutto diverso dalla nostalgia elegiaca che si legge nei bestseller italiani odierni e che, al di là di un leggero macchiettismo che alla lunga traspare, riesce a stagliarsi come gotico monito alla decadenza di una civiltà e di un’umanità, ogni tanto Mahagonny ma certe volte anche Pyramid di Golding (vedi i Testi sulla violenza di genere)… [senza scomodare il solito Twin Peaks o addirittura La luna e i falò]

Lo spettacolo non è cortissimissimo, 90 minuti, ma la costanza del ritmo, capace di fare restare desto l’interesse, è garantita da un eccellente montaggio degli episodi raccontati (che riescono a interrompersi e poi riprendersi con ottima sapienza diegetica), e la natura dello show, con gli attori che fanno tutto, anche trasformarsi in scena usando i trucchi più a portata di mano (specchi accrescenti sulla faccia per interpretare obesi, o scarpe su sgabelli che arrivano al ginocchio di chi sta loro dietro per rendere le gambe corte dei nani), è giustificata dall’innuendo che tutto quanto sia solo il racconto di un personaggio, come se lo spettacolo fosse tautologicamente parte di se stesso: geniale!

una genialità a cui si perdona una certa prolissità nel monologone finale che pecca un po’ di spiegonaggine ricostruendo alcuni fatti per i meno attenti (ma ci stava eh)…

Gli attori sono stati tutti superlativi: irosi e cattivi, e portati all’iperbole dal testo, hanno gestito tutti i movimenti e le intenzioni sì rispettando la volontà di deformazione generale ma senza mai esagerare, anzi, trovando sempre un equilibrio, vocale e gestuale, adattissimo alla narrazione più che alla compiaciutezza attoriale: con voce e corpo hanno davvero messo in scena le storie del testo centrando completamente le intenzioni di follia e insieme di pietas implicite nella voluta rappresentazione della cadente struttura sociale…

Potrebbero sorgere dubbi sul perché fare uno spettacolo sì di “cosmica” denuncia sociale della marcescenza del contratto sociale e su un sistema di convivenza tra uomini del tutto morente e mortifero ma tutto sommato sfoggiante una patente di puro intrattenimento, orroroso come i classici (Hoffmann, Stoker, Lewis, Heine) ma ogni tanto anche cronachistico, perfino dalle parti dei reality di true crime (perché quando fai il gotico, passare dal Dracula di Coppola all’Hannibal di Scott, o da Gadda a Carrisi, è un lampo!)… uno spettacolo di intrattenimento che, ok, addita la purulenza dell’animo umano, ma che non sembra linkare ad attualità, guerre o condizioni sociali discriminate del contemporaneo… [e sarebbe anche stato facile: una bella allusione, che ne so, alla Resistenza, in uno dei monologhi ed ecco fatto: si sarebbe persa un’anticchia di orrorezza (che poi non è neanche detto, visti i risultati della Malnata) ma sarebbe arrivata automatica l’attualità]

ma chissene!

anche The ‘Burbs di Dante è passibile di tali critiche, ma è ganzissimo lo stesso!

e l’intrattenimento è la vera forma di intelligenza dello spettacolo, e in questo Murmuris e Atto Due sono stati mastodontici nel divertire facendoci riflettere, arrivando anche a concetti alla Boorman (vedi il rovesciamento del bucolico in incubo) o alla Hamaguchi (però andando più sull’espressionista) o alla Alan Moore (per la convinzione che l’uomo si lamenta tanto del destino quando è lui l’unico agente del male fatto per sé e per gli altri), con l’assertività della diegesi d’intrattenimento!

Entusiasmante!

Il soundscape, intenso e inventivo, è di Isabelle Surel

6 risposte a "Le case del malcontento [spettacolo di Murmuris & Atto Due] al Materia Prima Festival"

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  1. Grazie per questo resoconto particolareggiato. Mi stuzzica molto, lo vedrei volentieri perché sto proprio leggendo il romanzo di Naspini, domani posterò la recensione. È un romanzo geniale, straordinario, davvero notevole.
    Del resto, anche Villa del seminario mi aveva colpito molto.
    Mi piace la sua scrittura, la sua capacità affabulatoria, il suo raccontare storie fuori dal coro.
    E credo che l’espressione orale, teatrale possa sposarsi bene con le sue opere.

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