«American Psycho» di Bret Easton Ellis

Io detesto le narrazioni cattivistiche sui serial killer, quelle che ti presentano il serial killer come qualcosa da studiare non per “eliminarlo” ma per renderlo un oggetto speciale e quindi perfino simpatico…

Lo si evince dalle Benevole e dalla Casa di Jack

Oltre ai classici sull’argomento (i soliti Peeping Tom di Michael Powell e Psycho di Hitchcock, entrambi del 1960: curiosamente gli USA adorarono il secondo titolo mentre la Gran Bretagna si schifava nel vedere il primo; A Clockwork Orange di Kubrick, ’71, dal romanzo di Burgess, ’62; e Angst di Kargl, ’83), i romanzi di Thomas Harris su Hannibal Lecter, giunti sulla scena più di 40 anni fa (Red Dragon è dell”81), credo che abbiano detto molto sul tema, per non parlare dei film che da essi sono stati tratti…

nel primo film, Manhunter, del 1986 (basato su Red Dragon, con Brian Cox a fare Lecter, ribattezzato Lecktor), Michael Mann, regista e sceneggiatore, trovò un giro di battute eccellente per spiegare il serial killer: il personaggio di Will Graham, il detective che cerca di acciuffare il killer, afferma che prova odio per l’assassino adulto che fa a pezzi la gente, ma al contempo prova un’immensa pietà per il ragazzino che l’assassino è stato, odiato dai genitori o affetto da patologie psichiatriche non trattate…
in quel giro di battute si afferma una cifra per il trattamento dei serial killer a livello cinematografico che è stata seguita poco, forse solo da The Silence of the Lambs (di Jonathan Demme, ’91, basato sul secondo romanzo “lectoriano” di Harris dell”88)…

…forse ancora franca nella descrizione dei serial killer, a mia conoscenza, è Patricia Cornwell, con la sua serie di romanzi su Kay Scarpetta, editi dal 1990 in poi (il primo è Postmortem) nei quali il killer è quasi sempre ben tratteggiato come un odioso egoista fortunato invece che come un genio…

ma per il resto, personaggi come Ted Bundy (1946-1989), Charles Manson (1934-2017), Henry Lee Lucas (1936-2001), Andrej Čikatilo (1936-1994), Jeffrey Dahmer (1960-1994), Issei Sagawa (1949-2022), e tantissimi altri, hanno avuto trasposizioni cinematografiche in un certo modo gratificanti, con questi individui, in realtà sfigati violenti psicotici, descritti come aporie quasi soprannaturali (nel film Evilenko di David Grieco, 2004, basato sui delitti di Čikatilo, si suggerisce che il killer avesse perfino poteri di ipnotizzatore), in film in cui sono protagonisti assoluti, film composti da sequenze di pura rendicontazione delle loro malefatte, ricostruite al millimetro, così tanto da rendere l’oggetto dello studio, cioè ‘sti serial killer, quasi eccitante, interessante…

e tali narrazioni hanno poi finito per rapportare il serial killer al vecchio modello dell’eslege, del ribelle all’ordine costituito, all’anarchico che, anche se ammazza o ruba per puro tornaconto o piacere personale, è comunque da preferire agli scribacchini mezzemaniche, biechi ingranaggi di un potere crudele quanto i serial killer, che gli dànno la caccia… una narrazione di “esaltazione” dell’eslege derivata dal classico Bonnie & Clyde di Arthur Penn e Warren Beatty, del lontano 1967, quando quella narrazione, in tempi di guerre civili razziste in USA, poteva anche avere senso… e difatti la ritroviamo, con lampante spirito di denuncia (almeno oggi: all’uscita il film suscitò invece emulazione, ahinoi), in A Clockwork Orange nel ’71…

nel 1993, Falling Down di Joel Schumacher (su script di Ebbe Roe Smith) seguiva questa idea politica del serial killer visto come quasi inevitabile conseguenza della standardizzazione spersonalizzante della vita borghese e dei lutti che il mondo capitalistico stava facendo…

e ancora nel 1994, alla fine di Natural Born Killers di Oliver Stone, si capisce che i poveracci e malati Mallory e Mickey sono forse migliori, in quanto sadici “giustificati” dai problemi, di chi è sadico ma protetto dalla legge, o dalla fama del cronista… e anche nel ’94, in mezzo ai tanti scandali mediatici americani, la cosa poteva avere ancora un argomento da spendere…

poi la sacralizzazione dell’oggetto di studio, del serial killer è andata avanti assai… con magari solo Zodiac (di David Fincher, 2007) e The General (di John Boorman, 1998, il cui protagonista non è però un serial killer ma solo un ladro) come uniche eccezioni (naturalmente a mia limitatissima conoscenza)…

il serial killer è diventato, lo dico in La casa di Jack, un simbolo quasi logoro, una metafora stanca di uno stile di vita (quello borghese) che uccide: al killer vengono spesso attribuite le soggettive che compongono i film, così da far coincidere il suo sguardo con quello dello spettatore, e quindi far riflettere quello spettatore sulla sua condotta malsana di borghese…

e questo quando va bene…

quando va male, quella sovrapposizione tra violenza e spettatore, è semplice carbonella per far esplodere puri voyeurismi fine a se stessi: e che tali film voyeuristici (di tutti i livelli: dalla pura cacca dei Saw fino agli idolatrati von Trier, Haneke o Lanthimos) facciano tanto successo prova forse la voglia di sfogo di una rabbia che, nel perbenismo odierno capace di creare tremende spirali del silenzio, con gente che si vergogna ad andare dagli psicologi o anche solo si vergogna ad ammettere di avere un problema, stenta a essere elaborata e compresa

Essere tacciato, da questi film, di essere uguale a un serial killer, e anche costretto a subire gli sguardi del serial killer, mi infastidisce ogni volta, per cui io tendo a evitare l’argomento…

e quindi cosa cacchio l’ho letto a fare American Psycho?

Innanzi tutto perché avevo adorato il film di Mary Harron (2000) e perché avevo adorato anche il film The Rules of Attraction di Roger Avary (2002)…

Rules of Attraction è stato il secondo romanzo di Easton Ellis (del 1987) dopo Less than Zero (1985: anch’esso adattato a film da Harley Peyton e Marek Kanievska nell”87: però non ho letto il libro né visto il film) e American Psycho lo segue, nel 1991…

Sia Rules of Attraction sia American Psycho seguono un andamento a episodi, che in Rules of Atteaction sono pluripuntuali (gli episodi hanno io-narranti diversi), mentre in American Psycho obbediscono alla sola visione di Patrick Bateman, il serial killer protagonista, fratello maggiore di Sean e forse frequentante, in passato, un certo Paul Denton, cioè due dei tanti narratori di Rules of Attraction: Patrick Bateman appare negli episodi narrati da Sean in Rules of Attraction

Sia Rules of Attraction sia American Psycho seguono una linea narrativa sempre più cupa e disciolta in anti-realismo, laddove erano iniziati con maniacale cura descrittiva, e finiscono con aborti imposti (da Sean alla sua ragazza più frequentata e da Patrick a una delle tante sciacquette in cui si imbatte) e nella disillusa constatazione che la vita non significa niente…

la polipuntualità di Rules of Attraction conquista molto di più della monotona voce di Patrick Bateman in American Psycho, un romanzo che mostra molte volte la corda dell’inutilità…
…ma certamente non cessa mai di centrare il bersaglio della denuncia…

poiché American Psycho, nel ’91, era denuncia e non ancora peana del serial killer da idolatrare…

Dalla meticolosa descrizione che Patrick Bateman fa del suo mondo, la Wall Street della fine degli anni ’80, si capisce che lo status symbol, il razzismo, la misoginia, l’omofobia, e l’ansia dell’apparenza, apparenza fisica e apparenza di comportamento di buone maniere esibite, sono centrali…

Bateman, un grande fan di Donald Trump e di una Maria De Filippi targata USA (Bateman non perde una puntata del Patty Winters Show, ogni volta incentrato sugli argomenti più voyeuristici e morbosi), descrive il vestire di quelli che vede enunciando le costose marche di moda che indossano prima di qualsiasi altra cosa…
enuncia le marche e le caratteristiche tecniche, del tutto inutili, di tutti gli apparecchi elettronici che vede dappertutto, con speciale compiacimento per quelli che compra lui stesso…
rendiconta precisamente le più assurde pietanze e i costosi drink che consuma nei locali alla moda newyorkesi…

La vita di Bateman va avanti priva di senso tra conoscenti di lavoro che si dànno appuntamento per pranzi veloci e per aperitivi drogati, descritti totalmente come del tutto privi di veri eventi, e ragazze flosce e stupide che vanno dietro solo al denaro…

Le conversazioni vertono solo su dove mangiare il giorno dopo, su come indossare certi capi d’abbigliamento, o su quanto è costato questo o quell’oggetto…

In queste serate si capisce ben presto che nessuno sa davvero come si chiami l’interlocutore: la gente si saluta con nomi a caso, che spesso neanche vengono corretti, in una sequela di convenevoli vuoti…

Via via che si va avanti, Bateman comincia a descrivere i suoi atti criminali, palesemente “ispirati” a quello che è stato accertato facesse Ted Bundy:

  • l’uccisione sempre più sadica (e perfino tragicamente parodica) di diverse ragazze (lui le paga per vederle fare sesso insieme, con descrizioni palesemente pornografiche, e quando sono stremate dai tanti orgasmi le stordisce e fa loro subire le consuete atrocità violente più raccapriccianti: dal costringere una a vedere morire l’altra, fino al coinvolgimento di attrezzi [sparachiodi, trapani, batterie e accendini vari] e animali [topi] nel loro smembramento, per concludere con l’ovvio cannibalismo)…
  • l’uccisione di senza tetto afroamericani e, spesso, dei loro cani…
  • l’uccisione di omosessuali in Central Park…
  • l’uccisione di un bambino in un playground, davanti a tutti, dietro a un cassonetto dell’immondizia, con Bateman che si finge anche medico per avvicinarsi al bambino morente e vederlo morire con sadismo…
  • l’uccisione di un collega broker, Paul Owen, al fine di rubargli un cliente importante: nell’appartamento del morto Owen, Bateman ci va anche a fare uno dei suoi ammazzamenti di donne…

Ogni volta non desta alcun sospetto (esattamente come Ted Bundy) perché sempre vestito bene, ricco, gentile; si conserva le casalinghe armi del delitto, che quindi non vengono mai ritrovate; e spesso scherza con i colleghi di essere un serial killer, cosa che suscita risate invece che sospetti… che abbia spesso macchie di sangue sui vestiti non desta mai preoccupazione in nessuno…

Quando uccide Owen, per sviare possibili connessioni, dice a Owen di chiamarsi Marcus Halberstram (cioè: Owen, in una delle tante serate “senza nomi”, scambia Bateman per Halberstram e Bateman continua nell’usare quel nome), ma a uno chauffeur usato durante il delitto dice, sbagliandosi, di chiamarsi Bateman, e poi si corregge: ma lo chauffeur non fa una grinza e chiama il cliente sia Bateman sia Halberstram… e la cosa non ha conseguenze…

Nel tran tran di Wall Street, quello che accade è privo di senso: la vita va avanti per i soliti convenevoli e nulla scalfisce la gara all’esibizione dei denaro, in una competizione silenziosa ma spietata… nella quale i delitti, oppure la verità, non interessa a nessuno (neanche in Rules of Attraction i narratori scoprono perché un personaggio, anch’esso narratore, si suicida: la sua verità è fagocitata dalla vuota vita di sesso occasionale, droga e sempiterne feste, che si conduce al College)

La narrazione si fa interessante

  1. quando Bateman confessa i suoi gusti musicali (Whitney Huston, i Genesis, Huey Lewis and the News),
  2. quando, per sbaglio, dice qualcosa sul suo passato (già a 14 anni assaliva sessualmente le cameriere nella magione di famiglia)
  3. quando si capisce che Bateman non è un vero broker ma è figlio del padrone della compagnia e quindi non ha alcun bisogno di lavorare, né avrebbe bisogno di esibire la sua ricchezza, ma non può farne a meno (quando incontra Sean, suo fratello, è sconcertato che egli non abbia le stesse sue ansie e spenda e spanda senza alcuna preoccupazione di status symbol)
  4. quanto uccide una vecchia fiamma dell’università: ella lo implora dicendogli di smetterla di farle male, suggerendo un “passato”
  5. quando, durante un concerto dal vivo nel New Jersey degli U2 (amante degli status symbol dell’hi-fi e della musica missata in disco, Bateman odia la musica dal vivo), è convinto di vedere Bono che lo appella per una missione semi-sacra…
  6. quando si immagina di essere inseguito dalla polizia dopo uno dei tanti delitti di barboni: durante l’inseguimento iperbolico, fatto di ammazzamenti di chiunque con Bateman che brandisce addirittura un Uzi da guerra, la consueta prima persona lascia spesso il posto alla terza, cioè Batman non dice «io faccio» ma dice «Patrick fa»
  7. quando avverte una ragazza abbordata a caso di lasciare il suo appartamento dopo il sesso perché lui potrebbe farle del male…
  8. quando, lui omofobo, si trova a essere oggetto delle attenzioni di un gay che, dopo diversi bicchieri, aveva abbracciato durante una festa di natale…

Questi elementi suggeriscono che in American Psycho, nel ’91, il serial killer è già metafora della società cattiva, ma con l’in più dell’allegoria dei rapporti personali oltre che sociali…

cioè American Psycho diventa struggente riflessione su quanto il male, così esagerato e aberrante, potrebbe stare per amicizie malate e amori tragici oltre che per denuncia dello stile di vita vuoto degli yuppies

e Easton Ellis, prima della glorificazione del serial killer supereroe dei 2000s, è geniale nel deformare tutto in sogno…

Quando Bateman, come tutti i serial killer, vuole tornare a vedere le sue vittime in decomposizione nell’appartamento di Owen, che si immagina ancora sfitto, è sorpreso dal fatto che l’appartamento è in vendita e che nessuna traccia del delitto è evidente ad alcuno, tanto meno all’agente immobiliare che vuole venderlo: l’appartamento è lindo e pulito…

quando un detective privato è in cerca di Owen viene fuori che Owen è in Inghilterra, vivo e vegeto…

Bateman confessa più volte ai colleghi di aver ucciso Owen, ma i colleghi lo prendono in giro perché Owen è vivo, ed è stato a pranzo con molte persone…

Bateman ammette di non ricordarsi affatto tutti i suoi delitti, e spesso descrive i suoi sogni esattamente come i delitti…

e quando la sua segretaria, da sempre innamorata di lui, si dichiara, Bateman le risponde che amarsi è inutile come inutile è tutto quanto, inutile è l’esistenza tutta: perché amarsi?

i delitti di Bateman sono forse reazioni emotive allo stile di vita drogato e inconcludente dell’alta borghesia newyorkese, reazioni ingigantite in sadismo ma esprimenti forse soltanto la rabbia interiore che un mondo di omofobia, razzismo, apparenza e misoginia origina in chi lo abita e vive…

e Easton Ellis è bravo a NON dirci che quei sentimenti li proviamo tutti, come fa un von Trier qualsiasi, e confina molto bene la cosa in una mente sola e in una classe sociale soltanto e ben precisa: è solo la mente di Bateman che il romanzo dipana, e null’altro: ed è solo quella mente a concludere che l’esistenza è inutile…

poi siamo noi a universalizzare la sofferenza nichilista, ma senza alcun sentimento di simpatia

Non ho letto American Psycho con piacere, e mi sono anche annoiato a morte per la sgradevole esibizione di violenza, ma tutti gli innuendo che tutto quanto è sognato (Bateman sente dappertutto la musica di Les Misérables, a Broadway dall”87 al 2003; e dappertutto vede intero o a pezzi il manifesto del musical), e la conclusione che la presenza di un serial killer non impatterebbe in nessun modo nella vita amorale e priva di contatti affettivi che si conduce tutti i giorni (dove la sparizione di questo o quello, nel razzismo e nell’omofobia arrembanti, non comporterebbe assolutamente nulla), né nell’esistenza tout court che va avanti priva di senso, mi hanno fatto riflettere assai…

una riflessione che mi ha portato a concordare con Easton Ellis sul fatto che se l’esistenza già di per sé vuota viene condotta con una vita priva di affetto ma zeppa di convenevoli di status symbol economici e sociali, dove tutti sono intercambiabili (tanto che nessuno si stufa se viene chiamato con un nome diverso dal suo), allora il pericolo di annullamento della vita, propria e degli altri, metaforizzato nel serial killer ma allegorizzante le violenze emotive che si subiscono o anche involontariamente si infliggono (dal ghosting alla non reciprocità degli affetti), è davvero all’ordine del giorno…

un pericolo che American Psycho, pur nella repellenza e spesso nella noia (è un romanzo assai ripetitivo), forse mi ha aiutato a esorcizzare… perché io voglio essere tutto tranne che Patrick Bateman…

…molto meglio, quindi, del solito panegirico sul serial killer fascinoso che ci ammorba oggigiorno che al contrario ti fa desiderare di essere il solito Joker o il solito Dahmer…

Nota: l’ho letto nella traduzione di Giuseppe Culicchia distribuita da Einaudi (nei Tascabili) nel 2001, con copyright rinnovato, per i cambi di veste grafica dei Tascabili da ET a SuperET, nel 2013 e nel 2014…

vedi anche The Shards

6 risposte a "«American Psycho» di Bret Easton Ellis"

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  1. Io neanche l’ho letto con piacere, in realtà ho letto poco con piacere di suo, m’innervosisce la sua violenza e gli elenchi che usa fino all’esasperazione. Ma mi piace ascoltarlo o leggerlo nelle interviste, ha cose molto interessanti da dire ma per me non le trasmette, anzi le trasmette male, nei libri. Comunque ho amato anch’io il film.

  2. Non l’ho letto… e non ho nemmeno visto il film. Però l’infittirsi di casi di cronaca particolarmente efferati e spesso vuoti (come quello degli youtuber o i due sedicenni che hanno ucciso un senzatetto) ci può far pensare che forse viviamo realmente in una società alienante in cui la vita, propria e altrui, perde di senso. Intendiamoci: le epoche precedenti, i bei tempi andati, erano altrettanto e più violenti.

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