Il male non esiste (Aku wa sonzai shinai)

Film da festival da manuale:
liturgico, immobile, contemplativo, dalla visualità ricercata, stramba e aggressiva, sempre alla ricerca del primato della visione, che obbliga all’abitudine del guardare un pubblico che si chiede cosa ci sia da vedere…

Rispetto a operazioni simili, ma più user friendly, tipo il recente Perfect Days, Ryusuke Hamaguchi, dopo il successo di Drive My Car (2021), ha anche l’aggravante di ingannare ancora di più lo spettatore presentando il film come una sorta di camomilla serena sui temi dell’ambientalismo, con un nemico facile da insozzare e odiare: gran parte del film è sull’opposizione di un piccolo villaggio montano nipponico all’apertura di un camping che inquinerebbe le falde acquifere e metterebbe in pericolo incendiario il bosco…
tutti noi spettatori ci indirizziamo verso gli abitanti del villaggio contro i promotori del camping, che vengono presentati come scimunite teste perse, attori riciclati come albergatori solo per profitto…

non possiamo non fare il tifo contro di loro…

Ma Hamaguchi da subito intorbida le cose…

la calligrafia paesaggistica e la pesantissima lentezza in tempo reale delle azioni presentate, più che organizzare il bucolico, destano quasi sospetto…

  • i titoli iniziali lampeggiano a intermittenza su una macignosa carrellata sulle fronde degli alberi agita da una macchina da presa sdraiata che guarda in alto mentre scorre dall’alto verso il basso… e sono titoli che durano un sacco…
  • la colonna sonora strange (di Eiko Ishibashi) si combina continuamente con suoni di diegesi, come passi o respiri, spesso fuori sincrono rispetto al video… e ha l’abitudine di interrompersi bruscamente, suscitando più di un effetto di straniamento
  • le azioni dei protagonisti rurali sono tutte presentate, come dicevo, in tempo reale, senza alcun intervento di edulcorazione dei tempi morti: e sono azioni tediose e financo assurde: l’andare a prendere l’acqua al ruscelletto con le taniche, portare le taniche al bagagliaio delle auto parcheggiate all’imbocco del sentiero ecc. ecc.: roba che porta via quelle che sembrano vere e proprie ore, ma il film dura solo 106 minuti…
  • il protagonista, per molto tempo presentato come la voce della ragione nel film, si scorda spesso di andare a prendere la figlia a scuola, e si muove come se avesse improvvisi mal di testa, oltre che momenti di impasse quasi autistico…
  • quando il protagonista va a prendere la figlia a scuola la macchina da presa si attacca al retro dell’automobile e riprende per minuti l’andare dell’auto osservando la strada che per lei fluisce all’indietro…

Tutte cose che invece di bucolizzare e paradisizzare la Natura la comunicano come qualcosa di poco possibile, e perfino poco amichevole, con non pochi tramonti (la fotografia è di Yoshio Kitagawa) arrabbiati da colori del paesaggismo più cattivo (alla Constable, per capirsi)…

E il sospetto delle immagini continua quando il film va ad occuparsi dei biechi attori riciclati come imprenditori campeggisti:

  • nessuno vuole fare il camping, ma il denaro è già in moto e quindi il camping andrà fatto per forza
  • chi è incaricato di comunicare con gli abitanti del villaggio sono due attorucoli falliti, un uomo e una donna, di cui vediamo il lungo viaggio in auto verso il luogo di costruzione: vediamo il loro parlottare del più e del meno, di cose del tutto quotidiane, dalle quali però si evince che l’uomo è un esagerato (termine di lei), incline alla troppa rabbia come al troppo entusiasmo…

Tutto scorre lentamente e in maniera sorniona, finché il film vira verso la tragedia in un modo quasi brusco, poiché i sospetti su elencati si concretizzano molto velocemente e de abrupto nel drammatico…

E la cosa interessante è che quella macchina da presa che era stata così generosa di dettagli infimi e ininfluenti, così brava a documentare il tempo reale delle azioni, a far vedere anche il più quotidiano e triviale dei movimenti comuni e pedissequi, con solo alcuni dettagli strange di sospetto (la colonna sonora che si interrompe, il fluire all’indietro della strada, il lato Constable del paesaggismo), decide, in modo davvero crudele di non NON GUARDARE l’effettiva azione, l’effettivo importante, del viraggio in tragico…

finisce che la tragedia NON LA VEDIAMO… e per questo ci cade addosso ancora più truce…

Per certi versi, Il male non esiste mi ha dato l’idea di un incrocio tra il Gerry di Van Sant (2002) e Deliverance di John Boorman (1972): cioè una voglia di ritorno alla Natura che appare benigno e georgicamente idealizzato, ma che poi si rivela distruggente, entropico, violento e mostruoso…

perché la Natura questa è: è effettivamente un qualcosa in cui «il male non esiste» perché di quel Male è assolutamente indifferente così come del Bene…

indifferente come la macchina da presa che inquadra quello che vuole solo per caso e per inerzia: che si interessa a quello che vuole nei minimi dettagli quando le cose al contrario lasciano indifferente l’Umano, ma poi si volta dall’altra parte quando le cose sarebbero “interessanti”…

perché così è la Natura: interessata a cose che non includono l’Umano…

e l’Umano piange di non essere osservato dalla Natura quando vuole lui, ma la Natura se ne frega: vede solo quello che vuole lei, con una lista di preferenze su dove puntare l’occhio che l’Umano non comprenderà mai…

anche perché l’Umano dice tanto di essere tutt’uno con la Natura e di ispirarsi ad essa (gli abitanti del villaggio la menano con la loro vita in armonia con la Natura, con l’acqua che scorre e con la “concertazione democratica” del loro governo) ma in realtà ha un modo tutto suo, un modo che infatti non riesce a prescindere dal Bene e dal Male, anche se arbitrari, né riesce a garantire una effettiva vita rupestre: anche gli abitanti del villaggio, così ferini a parole, hanno le automobili, vanno a caccia e tendono a essere “violenti” (uno dei cittadini più giovani sfida il promotore maschio del campeggio a fare a botte) e giudicano e si autogiudicano secondo orpelli morali completamente inventati (la lunga conversazione che i promotori del camping hanno in auto si evince vertere sui dilemmi morali di trovare amicizie e fidanzati online o no): tutte cose a cui la Natura, coincidente con lo sguardo del film, spia volenterosa e curiosa, ma che poi tralascia e spazza via quando si passa al tragico…
un tragico a cui lo sguardo della Natura non dà alcun appiglio: nulla si vede e nulla si evince nell’audiovisualità del film che ignora volutamente, deliberatamente e davvero crudelmente, tutta l’azione nel suo continuo fluire della colonna sonora interrotta e degli alberi che scorrono come nei titoli iniziali… come se la Natura facesse un beffardo dispetto all’Umano di non proferire proprio quello che l’Umano vuole sentirsi dire spasmodicamente…
nel mystery del finale, il film è velenosamente reticente e quasi si compiace di esserlo, con shots da cui si presuppongono i contorni di un’azione che si intravede quanto basta solo per specularci sopra senza alcun appiglio di prova visiva… e senza neanche lo sfociare nell’espressionismo allucinato, ma solo lasciandoci inquadrature paesaggistiche prive di quello che per l’Umano sarebbe il senso [e quindi è tutto il contrario di Deliverance, che invece vira subito nel goticismo espressionista dell’allucinazione]…

Un film molto interessante,
da analizzare e sul quale riflettere,
ma anche un film a cui c’è da prestare attenzione, perché quei gaglioffi di Teodora (la distribuzione italiana) l’hanno pubblicizzato come cosetta edificante corroborante l’ambientalismo radical-chic d’accatto, mentre invece è un grumo di senso esistenziale cinematografico che spaventa e sconcerta…

Hanno fatto come Beethoven che ha chiamato Allegretto il secondo movimento della Settima sinfonia, lasciando presagire a un comodo temetto, senza alcun indizio sulla effettiva natura stritolante del pezzo…

Oppure come Francesco Tricarico, che è arrivato al successo 25 anni fa con una canzoncina, Io sono Francesco, che sembrava giocosa ma invece era da suicidio…

Il doppiaggio effettuato a Torino da Patrizia Giangrand non mi è sembrato male, ma la voglia di sentirlo in giapponese è tantissima…

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