Forse una città (Mirages) [spettacolo di ADA Collettivo] al Materia Prima Festival

Stavolta una prima nazionale al Materia Prima Festival del Teatro Cantiere Florida…

uno di quegli spettacoli che viene in qualche modo spiegato dalle dichiarazioni nelle brochures e nei programmi di sala, ma che materializza su chi lo guarda per la prima volta un gigantesco punto interrogativo sulla testa unito a qualche risata involontaria da stereotipo del teatro contemporaneo, quello schernito da tutti quanti, da Gigi Magni («il teatro che per capirci qualcosa ci vuole l’astrologo») a Paolo Sorrentino (che prende in giro le ragazzette teatral-artistoidi sia nella Grande bellezza sia in quella merda della Mano di dio [come se Sorrentino facesse cose migliori di quelle che prende in giro!])…

Sei persone, tre donne (di cui due atlete-ballerine-palestrate, una scura e una rosa, e una danzatrice di tip-tap pressoché muta) e due uomini (un Dargen D’Amico glitterato e un cabarettista mancato), che sembrano i figli di una trinità composta dal Breakfast Club, la combriccola di Hair e i comici di Zelig dell’era Hunziker, si muovono nel solito teatro spoglio, con il solito telone da proiezioni sullo sfondo che ospita foto di mostrilli vari, danze di danzatori mascherati da abitazioni e le distorte riprese del palco fatte live da una telecamera ben visibile in platea, e ogni tanto parlottano ai microfoni posti in bella vista sulle aste…

animano poche scene… quelle che mi ricordo sono:

  • tutti i personaggi, in fila sul proscenio, a costruire castelli di domino che eternamente crollano,
  • un monologhetto del cabarettista che parla di cultura popolare come se fosse una cosetta di cui tutti possono parlare (inneggia alla distruzione e dice di preferire Godzilla a Capitan America per poi prendere in giro una sua amica che nasconde mattoni nei castelli di sabbia per godere del dolore di chi, ignaro, cerca di distruggere quei castelli a calci), e parla di persone che indossano o che sono abitazioni (quelle persone che poi vedremo danzare nella proiezione [abbiamo tanto preso in giro Baricco perché in City paragonava la gente alle vie e alle piazze: adesso ci sono le persone-case, come quelle che si sogna appunto il «sognatore» all’inizio delle Notti bianche di Dostoevskij]),
  • una perorazione della palestrata scura che sembra inneggiare all’individualismo, ma che poi si smentisce da sola,
  • una interminabile “danza” delle palestrate che fanno finti esercizi ginnici mentre il cabarettista e il Dargen commentano, un po’ ironici un po’ apertamente canzonatori, sulla voglia famelica infinita del contemporaneo sempre alla ricerca «di fare di più»,
  • una toccante scena della palestrata rosa che palesemente finge di far fatica a portare due pesantissime borse della spesa che poi si rivelano contenenti solo alcune piume rosa,
  • un momento in cui la telecamera di platea inquadra il pubblico, con distorsioni che storpiano l’immagine in quadrati concentrici (nel pubblico, un paio di complici mostrano strane parrucche e un peluche di quella che mi è sembrata una volpetta carina),
  • un monologhetto che mi ricordo poco, mi sembra della palestrata rosa, che racconta di un difficile rapporto con un’altra persona, perché tutte le persone hanno difficoltà ad armonizzarsi con loro stesse e con i loro alter ego mentali alle volte perfino ostili e autodistruttivi,
  • un monologhetto del Dargen che sembra essere contro la guerra e che è imbevuto di retorica da blaterazione estemporanea di un complottista,
  • una tip-tappata della danzatrice di tip-tap,
  • una scena d’insieme di tutti e 6 in fila in fondo al palco a scoppiare le bolle della plastica per imballaggi mentre, a turno, proferiscono sentenzine alla ‘ndocojocojo tra messianesimo, grillismo spicciolo (grillismo della stagione della piattaforma Rousseau) e post di Facebook di un 50enne (di quelli che vengono pubblicati come idee geniali ma che poi, dopo due settimane, se riletti, non hanno alcun senso), pieno di banalità, luoghi comuni e riflessioni aforistiche dozzinali, tra la tautologia enigmistica alla Bartezzaghi e il proverbio di Frate Indovino: roba su aneddoti vari di scemenze che dovrebbero provare che la vita è bella mentre dimostrano che fa schifo, oppure semplici corbellerie da Libro delle risposte
  • il finale con tutti e 6 che tirano fuori dei piccoli stegosauri giocattolo semoventi, con le piastre dorsali che si illuminano di diversi colori (forse richiamanti gli accenni a Godzilla del primo monologo benché gli stegosauri siano quadrupedi mentre Godzilla è tradizionalmente bipede), e li lasciano andare per il palco e finire di distruggere i pezzi di domino rimasti sovrapposti nella prima scena…

mentre accade tutto questo, ci sono delle “musiche” (a cura di Lady Maru), o meglio dei rumori, che ritmano e accompagnano in colonna sonora… e ogni tanto lampeggiano varie lucette…

gli autori (Loredana Antonelli, Pasquale Passaretti ed Elena Zagaglia), alla fine, hanno letto un testo a favore del ‘cessate il fuoco’ a Gaza proiettando diversi contatti di onlus benefiche che cercano di raccattare i cocci nella zona invasa…

nel programma di sala dicono che la scena sarebbe una «departure lounge» piena di gente casuale «in attesa di un possibile imbarco»…
boh

gli aforismi vari pronunciati inneggiano quasi tutti alla irriducibilità del mondo a un senso o a una scintilla di chiarezza…
ed è certamente facile parlare di mancanza di senso con uno spettacolo senza capo né coda (certe volte anche somigliante alla vaghezza un po’ spocchiosa del Kusturica di Arizona Dream o del P.T. Anderson di Magnolia: quella che «non ci capisci nulla ma è fatto apposta: perché io ti suggerisco che qualcosa c’è anche se non c’è: perché sono io che parlo con me stesso della mia vita annoiata quindi non è vero che non c’è niente, ci sono io, e anche se io sono niente o sono banale, vabbé, di sicuro però ci sono!»), evidentemente costruito anche su idee fin troppo laboratoriali (si vede che certe movenze erano più per chi le faceva che per chi le vedeva: era come vedere l’allenamento di qualcuno che non conosci), capaci, sì, di parlare della duttilità e liquidità del «corpo dell’attore» (un corpo così tanto esibito ed esplorato in tutte le performance di questa edizione del Materia Prima Festival), ma che fanno rimpiangere ben presto una «mancanza di senso» più riflessiva del semplice indicare dadaisticamente l’assurdo…

io, per esempio, ho rimpianto Excel Saga, ugualmente esprimente la mancanza di qualsiasi senso nella vita, ma nel contempo capace sia di far ridere sia di fare piangere: ed è bello piangere e insieme ridere dell’insensatezza della vita, perché dimostra la permanenza delle emozioni nello sfacelo dell’abisso del significato…
…o perfino una puntata della serie della Pallottola spuntata, o un cartone di Tex Avery e Chuck Jones: privi di senso e ugualmente dadaisti, ma con graffio anarchico e iconoclasta, non zeppi della quaquaraquezza dei post dei boomer sui social che avevano gli aforismi e i monologhetti di questo testo…

Gli attori erano Anna Basti, Mariella Cella, Luigi Morra, Pasquale Passaretti ed Elisabetta Ventura…

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