«La malnata» di Beatrice Salvioni

Quella che dai ringraziamenti si evince essere una allieva del tanto vituperato Baricco (la Scuola Holden di Torino) e una frequentatrice dell’Università Cattolica milanese, fatti che dovrebbero prevedere, da parte mia, arricciamenti vari di pregiudizi odiosi, scrive uno dei romanzini italiani più carini, divertenti (da leggere) e ficcanti di quest’anno…

Nonostante premesse e motivazioni facili e didascaliche, come quelle dietro ai libri di Viola Ardone, e nonostante la voglia immensa di semplicità, sciorinata apposta per piacere a tutti, La malnata conserva uno stile di immaginazione che conquista…

Nella Monza della vigilia dell’invasione italiana di Etiopia, due ragazzine 14enni fanno amicizia nonostante la differenza di casta e di idee politiche amplificando le già numerose dicerie malsane che gravavano su una di loro e che si abbattono col tempo anche sull’altra…

Nel gioco facile della rievocazione storica, Salvioni immette uno sguardo alla Alan Parker, fatto solo di frammenti di sensazioni e supposizioni di una ragazzina io-narrante, intorbidando tutto di un goduriosissimo espressionismo che trasforma luoghi e situazioni “certe” (il Lambro, il Duomo, le vie di Monza, il cortiletto nel retrobottega di un fruttivendolo, le abitazioni delle protagoniste) in impressioni malsicure, anche allucinate e paurose, del tutto uguali alle emozioni, immediate e scottanti come lo sono a 14 anni, descritte tutte appunto con una nettezza espressiva toccante…

Per capirsi: spazio ed emozione sono da Salvioni descritti nello stesso modo e quindi non si sa cosa è emotivo e cosa è fattuale…

Con tesserine sintattiche minuscole ma precise, spesso elementari e paratattiche (per stare dietro allo sguardo di una ragazzina non ancora completamente scolarizzata) ma qualche volta capaci di lampeggianti momenti obliqui, degni di un maestro, Salvioni costruisce un efficace connubio tra storia e discorso indovinando diversi aspetti…

Il discorso è un mix di emozioni vivide e prepotenti, verbalmente espresse senza fronzoli, ossia sincere, e uno sguardo che trascolora di evanescente immaginato gli eventi narrati… ne esce quasi una contrapposizione tra quello che si sente e quello che si vede, una contrapposizione che diventa ben presto match tra ciò che si prova e ciò che ci viene imposto, e alla fine riflette fantasticamente la presa di coscienza lucida e approfondita di essere vissuti sotto un regime, il fascismo, che sulla bugia, l’imposizione, la negazione delle vere emozioni, tramortite in fasulle affettazioni di facciata e di tornaconto, spesso imposte perfino nel comportamento privato, si è basato, nell’indifferenza di tutti…

Le ragazzina io-narrante ci esprime quanto l’affiorare dei sentimenti veri dell’adolescenza le abbia aperto gli occhi certamente sui rapporti personali privati ma, grazie alla veridicità di quei sentimenti, anche sull’ipocrisia insopportabile del regime, che invece va bene a tutti quelli con cui ha a che fare: a nessuno interessa del tragico maschilismo, neanche alle altre donne, che accettano lo statu quo come inevitabile, come se gli altri non avessero ancora compreso lo scarto tra emozione vera sentimentale e le maniere esteriori del regime; a nessuno interessa che l’educazione sia una pagliacciata di propaganda; a nessuno interessa della insincerità dei rapporti umani, coltivati solo per interesse economico o di prestigio in una piramide sociale divisa in classi…

Interessa solo alle protagoniste, perché loro riescono a connettere e quindi contrapporre i loro sentimenti genuini con le ipocrisie della gente irretita dal fascio…

E lo stile del romanzo, ibrido tra espressionismo e descrizione storica, designa questa presa di coscienza!

Una presa di coscienza che fa fare alle ragazze lo switch tra dicerie e i sentimenti: le dicerie sono vere e i sentimenti finti nel mondo del fascio, mentre nel loro mondo è il contrario, ma quelle credenze superstiziose possono essere usate anche contro il fascio!

Se non si distingue irrazionale da ormonico, e non si bada se nei rapporti di tornaconto ci sia corrispondenza tra rapporto ed emozione, allora si può credere a tutto: se nel fascio si può credere che si possa essere amici solo per tornaconto, e se si crede che alle dicerie corrispondano i fatti, allora si può far passare quelle dicerie per fatti veri, cavalcando la suggestione e l’allucinazione per scopi più sinceri…

Magari anche per far capire a tutti quanto fragili siano i presupposti della mentalità fascista…

Salvioni mescola bene materiale risaputo in maniere davvero interessanti: La storia di Elsa Morante e Gli indifferenti di Moravia convivono con Heavenly Creatures di Peter Jackson (esclusa la componente visionaria: quelle di Salvioni sono ragazzine poco creative e molto concrete: si immaginano roba connessa con quello che vedono invece che inventarsi di sana pianta un mondo altro), con Orange Road di Kobayashi (la intensa enumerazione delle emozioni dell’amicizia che cresce, e delle implicazioni saffiche e ormoniche di quella amicizia, è davvero degna dello sguardo di un anime), e con Dies irae di Dreyer: è un impasto pieno di cadute nello scolastico, ok, soprattutto quando evidenzia certe perfezioni delle ragazzine «fatte apposta per piacerti», ma anche capace di creare situazioni allucinanti in cui la riva del Lambro sembra un incubo stralunato alla Neil Jordan (tra The company of wolves e Interview with the vampire), il cortile del fruttivendolo sembra l’incidente con Sherilyn Fenn in Wild at Heart di Lynch, e in cui la componente stregosa delle ragazzine funziona alla grande, riscattando con un uno sguardo fantasioso, quasi Schauerromantik (oppure più consapevolmente gothic come, che ne so, l’ultima scena della Navarraise di Massenet), il sostrato edificante proprio quando diventa troppo perbenino

Questi ingredienti creano un libro lesto, sicuro e calibrato, narrato con uno sguardo imbattibile per connessione con la trama e per capacità di evocazione di situazioni e percezioni… un romanzo che sarebbe adattissimo da far leggere ai giovani così come si fanno leggere Calvino, Bassani, Natalia Ginzburg e Fenoglio…

La presenza di una funzione, la deuteragonista, un pochino troppo “costruita” (alla fine Maddalena fa tutto bene e al momento giusto, come una chosen one, fin troppo come Macduff nel Macbeth e come una final girl degli horror anni ’80 americani), e l’insistere un po’ troppo (per i miei gusti) sui fioretti religiosi, non impediscono a Salvioni di realizzare immagini cristallizzate della follia odierna, dell’ancora imperante maschilismo e dell’ancora soffocante fascismo: soprattutto l’uomo riccone e fascista, che accarezza gli stemmi littori pseudo-patriottici mentre violenta una ragazzina, sicuro di farla franca, canticchiando Parlami d’amore Mariù (uno “straniamento” per la canzoncina suadente applicata a un atto efferato che rivaleggia, in efficacia, a Singing in the Rain di A Clockwork Orange [’71] e a Quei giorni insieme a te di Non si sevizia un paperino [’72]): un’immagine che Salvioni azzecca davvero da maestra, quasi come uno scatto di Steve McCurry, che oggi, con La Russa presidente del senato e i suoi figli a piede libero, brucia assai…

C’è chi potrebbe protestare nel vedere rappresentate consapevolezze odierne in un passato che le ignorava: come si lamentano dei coreani alla corte di Odino, con l’assurda argomentazione che non ci potevano essere contatti tra chi si immaginava gli occhi a mandorla e chi si immaginava Odino: così come non c’erano omosessuali un tempo e quindi metterli dappertutto è losco: o come non c’erano i neri nell’Europa del 1194 e quindi non ci dovrebbero essere neanche nei film in quell’anno ambientati… e per questi principi Salvioni non avrebbe dovuto mettere le femministe nella Monza fascista, perché le femministe non c’erano…

Sì sì, come no…

Il dramma è che i coreani da Odino, gli omosessuali tra gli elfi e i neri nel 1194 non è che non c’erano… è solo che nessuno li aveva ancora raccontati… e Salvioni, oggi, in tempi di fascismo di ritorno, ci racconta, con risultati trascinanti, una impossibile ragazzina femminista nella Monza del 1935… e di idee come questa, così ben lavorata, ne vorresti subito vivere un’altra!

2 risposte a "«La malnata» di Beatrice Salvioni"

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