De los muertos [spettacolo di Zimmerfrei] al Materia Prima Festival

Nonostante la morte sia esperienza quotidiana, e nonostante la enorme mole di fiction e non fiction disponibile per “farsi un’idea” del lutto (vedi anche quello che si dice in Due vite), il fatto che si debba morire sconvolge noi umani terribilmente…

tanto che Zimmerfrei produce una sorta di laboratorio in cui gente comune, precedentemente coinvolta, è invitata a parlare delle proprie esperienze di morte (oppure di lutti a loro vicini) in uno spazio particolare dove le cose morte dialogano assai col presente, ossia l’Archivio di Stato di Firenze, grande crogiolo di storie di gente morta e stramorta…

L’edificio dell’Archivio di Stato, dell’architetto Italo Gamberini (costruito tra 1976 e 1989), con le sue linee da modernariato futurista (sembra uscito da Arancia Meccanica di Kubrick), crea uno spazio per una mostra itinerante fatta di consuete installazioni di arte contemporanea, mostra che guida allo stilosissimo auditorium, dove un gruppo di non professionisti, fino a quel momento confusi col pubblico, si mette alle aste del microfono, poste in varie parti dell’auditorium, a raccontare una esperienza luttuosa, soprattutto post-luttuosa: dal ritrovamento di oggetti del morto dopo anni che è morto, al sentore di presenze fantasmatiche in casa, agli aneddoti vari di sogni col morto, cene col morto, avvistamenti del morto, e semplici azioni che, al parlante, per qualsiasi ragione, hanno ricordato il morto…

durante i monologhi al microfono, quelle presenze, quasi appunto come fantasmi, “muovono” l’auditorium, con luci che si accendono su determinate porzioni di spazio, diapositive che scorrono su un muro con frasi tratte da varie esperienze, fasci luminosi che si accendono, porte automatiche che si aprono, veneziane che si chiudono e altre cosette così…

l’auditorium, inondato da queste esperienze monologose leggermene “animate” dalla stanza, diventa quasi una seduta frammentata da uno psicanalista, una seduta dove si elabora il lutto…

il muoversi della stanza ha ovvi echi lynchiani (soprattutto di INLAND EMPIRE), ma la struttura a frammenti di monologhetti sembra essere fatta più per chi legge che per chi ascolta, con una catarsi che riguarda l’agente invece che lo spettatore…

la regia dello spazio era ottima, e la gestione del sonoro suggestiva, ma le esperienze verbalizzate del lutto mi sono sembrate uguali a mille altre, anche perché sono quasi sempre le stesse in tutte le culture, e a me, cinico dentro, la condivisione della vita (tale è la morte) di tutti i giorni mi interessa poco (e a questo proposito cito sempre Roberto Longhi e il suo dubbio su come sia possibile che la vita, o la fine della vita, di un semplice essere umano, una cosa, cioè, così diffusa e sempiterna, sempre uguale, possa davvero destare l’interesse di qualcuno, anche di uno stesso essere umano, che farà sempre esperienze simili, e alla fine morirà pure lui!)

mi sono quindi fracassato le palle

ma chapeau alla costruzione scenica dell’auditorium!

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