«I miei stupidi intenti» di Bernardo Zannoni

Siccome ha vinto tutto, dal Campiello al Premio Fiesole, le interviste a Zannoni sono state tante e quasi in tutte Zannoni ha ribadito che la sua più grande ispirazione è stato Fantastic Mr. Fox di Wes Anderson…
l’ha ripetuto più volte eh…
come se il racconto intitolato Fantastic Mr. Fox fosse solo quello illustrato da Wes Anderson nel suo film del 2009…
e mai una volta che qualcuno gli abbia detto che il Fantastic Mr. Fox di Anderson del 2009 è basato sul Fantastic Mr. Fox di Roal Dahl del 1970…

Mai una volta che Zannoni abbia tirato fuori le miliardate di storie di volpi, lupi e cani che affollano l’immaginazione umana dai Sumeri in poi…

Mai una volta che Zannoni abbia citato Watership Down di Richard Adams del ’72… un romanzo che fu tradotto in italiano da Pier Francesco Paolini, credo per Rizzoli, intorno al 1975 (La collina dei conigli), che si ristampa copioso ancora adesso e di cui esiste anche il film del ’78 (ne ho parlato perfino io!)…

perché è evidente che Zannoni, di quelle storie millenarie e di Watership Down, non ne sa niente… nonostante si trovi a inventare cose che a quelle storie millenarie e a Watership Down comunque assomigliamo molto…

perché l’idea di metaforizzare la struggle for life umana attraverso un transfert con la struggle for life animale è vecchia… di parecchietto…

e se uno non è come Zannoni, e quindi qualcosa di Esopo o del Roman de Renart l’ha presente (ed è facile averli presenti perché i rimasugli di Esopo e del Roman de Renart si trovano dappertutto, anche là dove non ti aspetti), allora leggendo I miei stupidi intenti ha un fastidioso senso di déjà vu mal riposto…

e mal riposto perché è un senso di déjà vu che si avverte anche in roba come Super 8 di Abrams, o nel Suspiria di Guadagnino: quel déjà vu che deriva dal vedere «tagliata» una cosa apposta per «incollarla» in un altro contesto del tutto diverso, creando un collage spaesato e incoerente di frammenti presi alla ‘ndocojocojo a cui sfugge qualsiasi tentativo di ricerca di un senso…

Per certi versi, Zannoni incappa negli stessi errori che abbiamo appena visto proprio in Guadagnino in Bones and All

Nel film, Guadagnino ha tra le mani il cannibalismo, a cui è convinto di aver conferito istanze metaforiche, però non ha elaborato a cosa quelle istanze metaforiche si riferiscano: il cannibalismo di Bones and All è sicuramente metafora, ma metafora di che?
di nulla…
è metafora di per sé,
fine a se stessa…
…e cioè è metafora di niente, e quindi non è manco metafora perché metafora vuol dire trasferire un concetto in un altro, implica quindi almeno due idee, un’idea, diciamo, “di partenza”, e una “di arrivo”… ma Guadagnino l’idea “di arrivo” non ce l’ha… e quindi che metafora è?
non è manco metafora… è farfugliamento…

Zannoni, nel suo romanzo, è uguale…
per lui la vita animale è metafora di sicuro, ma di cosa?
della struggle for life dei miliardi che lo hanno preceduto?

la sua faina, Archy, ha a che fare con una volpe che gli insegna che esiste dio (con tanto di interi episodi di catechismo, con la volpe a fare il Bignami della bibbia!)… concependo l’«esistenza» di dio, e vendendolo crudele perché fa morire tutti, allora Archy comprende di essere mortale, e la cosa lo eleva rispetto agli altri animali, inconsapevoli della loro temporalità…
un momento…
Archy è più consapevole della morte rispetto ai suoi simili animali?
quindi Archy ha paura di morire mentre gli altri animali non ce l’hanno?

beh… no…

se così fosse la metafora reggerebbe, ma invece Zannoni si guarda bene dalla coerenza e mentre descrive un Archy sedicente superiore per consapevolezza mortale, descrive anche lo stesso Archy che vede animali che hanno una fifa matta di schiattare, come è ovvio…
sicché la consapevolezza “maggiore” di Archy dove sta?

ogni tanto, Zannoni fa dire ad Archy, io narrante, che la sua maggiore consapevolezza sta nel sentire sentimenti del tutto umani, e quindi nel suo essere qualcosa in più degli animali…
l’uomo è qualcosa in più degli animali? ma Zannoni che cacchio sta a dire?
o non era partito nel voler fare della condizione animale la metafora della condizione crudele umana come tutti i suoi predecessori?
ah no eh…
perché i predecessori, forse non conosciuti, sono solo “copiati e incollati” in un contesto improprio…
sicché finisce che Archy in qualche paragrafo dice «sì, sono più bello e bravo degli altri perché so cose, tipo leggere e scrivere e sono capace di autoingannarmi con la fede in un dio, cose che mi fanno somigliare all’uomo» ma molto più spesso finisce con l’affermare «no, nonostante sappia leggere e scrivere, io in dio ci credo ma credo sia uno stronzo e la felicità la trovo solo e soltanto quando sono un animale, cioè quando mi lascio andare all’istinto e quando tento di mangiare, per saziarmi dalla fame, i miei stessi figli»…
indubbiamente un capolavoro di coerenza…
nella scena in cui vuole mangiare il figlio, la moglie è lì che lo guarda attonita mentre Archy proprio ragiona che lui è più di lei perché è consapevole, per “pragmatismo umano”, che il figlio vada mangiato e ritiene lei inferiore perché si appella solo all'”istinto animale” materno di proteggere il figlio…
la cosa funziona?
non è una coglionata fumosa che non vuol dire nulla?

ma un personaggio deve essere coerente?
la storia deve essere chiara?
ma no, ci mancherebbe: può essere quel che gli pare…
ma alla fine che personaggi sono? che storia è?

non sarà mica la solita minchiata dove si finisce col dire che homo homini lupus senza un’anticchia di riflessione come sono stati Northman, Primo re e via andare?

I predecessori di Zannoni lo sapevano che storia raccontare, ed era davvero la metafora della caducità umana metaforizzata nel mondo animale…

la volpe Renart del romanzo medioevale, con i suoi amici Ysengrin e Chantecler, era un formidabile simbolo della ferinità casuale del mondo random della società disperata feudale… ti sentivi umano e disperato eccome, alla fine di ogni storia in esso contenuta: una specialissima riflessione nichilista che non si vergognava di esserlo…

lo Chantecler di Rostand (1910) era una stupenda e romanticissima vicenda atta a decantare l’immortalità delle idee e la frase «Je n’oublierai jamais la noble forêt verte / Où j’appris que celui qui voit son rêve mort / Doit mourir tout de suite ou se dresser plus fort!» esprime assai bene il messaggio (Chantecler ha avuto una traduzione italiana in versi di Olindo Guerrini aka Lorenzo Stecchetti e Adolfo Giaquinto, edita dalla Vitagliano di Milano nel 1920)

la volpe Bystrouška di Těsnohlídek (1920) era una spassosa denuncia del perbenismo (ispirò Leóš Janáček, vedi Musiche per la primavera e il Don Chisciotte di Gilliam)… un romanzo che però non mi risulta tradotto in italiano (c’è la traduzione inglese di Robert T. Jones, Tatiana Firkusny e Maritza Morgan con disegni di Maurice Sendak, al posto degli originali di Stanislav Lolek, edita da Farrar Straus & Giroux nel 1985)

gli animali della Animal Farm di Orwell sanno bene che stanno lì a colpire la rivoluzione tradita di Stalin…

Owl and the Pussycat di Edward Lear (1870) [oppure di Stravinskij, 1966] ci dilettano sempre con il loro amore nonsense

le storie degli animali antropomorfi dei libri di Alice di Carroll, soprattutto il Cheshire Cat, hanno un carisma prodigioso…

gli scarafaggi di Kafka, gli insetti di Čapek (esiste una traduzione italiana della Vita degli insetti dei fratelli Čapek, di tale U. Dadone, uscita nel ’24), i cani di Bulgakov e tutta la baracca immaginabile lo sapevano benissimo dove “colpire” col loro messaggio…

Zannoni non sembra avere le idee chiare e difatti salta di palo in frasca con un andamento che è fin troppo episodico e fin troppo ottuso, con tante scene ripetitive (non si contano quelle in cui la volpe picchia Archy per convincerlo a scrivere le sue memorie) e tante del tutto inutili (quella della caccia a David il maiale: utile come i bradipini di Ice Age 2)…

Alla fine, invece di imbastire chissà quale riflessione sulla condizione umana, Zannoni usa l’ambiente animale solo come milieu di scene gratuitamente splatter (descritte anche in modo talmente smorto da non fare nemmeno effetto) e per urlare un ritrito grido di dolore per il terrore della morte… cioè è un balbettio sconclusionato sulla classica tragedia di non riuscire a spiegarsi del perché si muore… (vedi anche Due vite di Trevi)

occorreva davvero lamentarsi della morte con una storia sugli animali?

disperarsi dell’incombere della morte in contesti ferini invece che umani rende il ritrito lamento della condizione mortale umana più ficcante?

secondo me no…

secondo me l’ambientare la fifa mortifera nel contesto animalesco tarpa le ali proprio al contesto animalesco stesso, che finisce per esaurirsi, privo di senso, come il cannibalismo di Bones and All

perché, se di paura delle morte si tratta, e se si tratta anche di elencare i risaputi autoinganni apotropaici vari per scongiurarla (cioè dio, l’autoanalisi della scrittura e altre sciocchezze), allora perché ti servono gli animali?

per dire che l’uomo altro non è che un animale?

mah… forse…

ma la metafora uomo/animale regge meglio nei tanti predecessori di Zannoni perché era il piatto forte, mente nei Miei stupidi intenti è la paura della morte a prevalere…

e difatti gli animali di Zannoni, nonostante il tanto parlare di istinti primordiali, di animale finiscono per avere poco, in una antropomorfizzazione assai scadente…
sono animali ma fanno il baratto, hanno il senso di proprietà, di famiglia, di medicina (ci sono gli animali empatici descritti come dottori), di usura, di proprietà terriera, di schiavismo… fanno azioni assurde come portare carote al banco dei pegni…
che animali sono?
neanche Beatrix Potter (1866-1943) ha fatto animali così acculturati e difatti Zannoni se ne accorge e allora torna alla ferinità, ma i suoi animali non “pensano” davvero “animale” come fa la Bystrouška di Těsnohlídek o come lo Šarik (molto spesso reso come Pallino in italiano) di Bulgakov o come i semplici Garfield o Brian Griffin o come tutti gli altri precedenti di Zannoni, da Esopo in poi, che hanno saputo molto bene trovare una quadra nella loro antropomorfizzazione…
quelli di Zannoni sono animali che vorrebbero essere proprio brutti, sporchi e cattivi, in una bestialità che sulle prime sembra esibita e truce, ma che poi viene quasi edulcorata dagli elementi umanoidi della cultura (l’usura, il prestito): è una bestialità quasi dimidiata, che non somiglia per nulla all’equilibrio dei numerosissimi predecessori di Zannoni…

e l’animalità balorda, che non va in nessun posto, non è mai fonte di riflessione seria, perché se a dominare I miei stupidi intenti è la paura della morte, la consapevolezza mortale di Archy è comunque data per scontata: le differenze di Archy con gli altri animali, che la consapevolezza mortale dovrebbe comportare, si annullano subito nell’istinto, in cui Archy si immerge con somma gioia…

quando Archy vede gli altri animali inconsapevoli della morte non imbastisce a favore o contro di loro un discorso simile a quello di Milan Kundera nell’Insostenibile leggerezza dell’essere sullo scarto quasi cronofisico tra il mondo animale e gli altri mondi (con il cane e il maiale, in Kundera, a vivere un tempo ciclico là dove Tomas e Tereza, umani, lo vivono lineare), ma fa i pastrocchi come quelli della scena di Archy che si sente “umanamente” superiore alla madre mentre mangia il figlio e cioè proprio quando dimostra di essere invece più animale di lei: una idiozia…

e anche il buttarla sul sacro e la religione, con la bibbia, non va in nessun posto, perché al dio che la volpe gli “insegna” (tra l’altro a bastonate) Archy mica ci crede… o meglio, ci crede col segno negativo del risaputo “dio crudele”…
e allora la bibbia che ci sta a fare?
magari solo per scimmiottamento frainteso proprio di Watership Down, dove invece la riflessione teologica e teofanica è dirimente, con il capobranco “adorato” quasi come dio e con dio stesso che, quasi “biblicamente”, interviene nel prologo e nell’epilogo della lotta per la sopravvivenza…
cioè, in Watership Down la religione ci sta, perché è parte del sistema narrativo, in Zannoni la religione è tassello legato a nulla, non contribuisce a un cacchio se non alla confusione inutile, e non viene affrontata se non in vetuste modalità del “dio crudele” dell’empirismo contrapposto al dio benevolo della fede, roba così risaputa (Candide, per esempio tra i tanti?) che è raggelante vederla presentata come novità in un romanzo d’esordio…

Tirando le somme, I miei stupidi intenti è quasi illeggibile…
uno stile elementare (i buoni diranno «ma è così perché è scritto da una faina» anche se è una faina che sta tutto il libro a vantarsi della sua cultura!) racconta una vicenda che nelle sue sole 250 pagine scritte belle grosse (si legge in un pomeriggio) riesce a risultare ripetitiva e noiosa con un messaggio rivisto di desolazione per la paura inconsolabile della morte ambientato in un mondo zoologico del tutto squilibrato (tra istanze bestiali e istanze cólte negli animali antropomorfi) rispetto ai tanti e illustrissimi precedenti, dai quali copia e incolla senza capire…

Io non solo non gli avrei dato nulla…
ma manco l’avrei pubblicato! (tra l’altro la Sellerio, di solito molto seria, lo ha proposto nella collana Il contesto dove figura anche Una vita come tante di Yanagihara)

ma rischio di essere troppo cattivo, anche perché sto parlando di meri gusti personali di un pistola qualsiasi…

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11 risposte a "«I miei stupidi intenti» di Bernardo Zannoni"

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  1. Quando scrivi critiche negative sai essere terribile! 😂 Zannoni voleva solo guadagnarsi la pagnotta e tu pretendi metafore e un fine per ogni elemento narrativo utilizzato.

  2. Non ho letto mai letto libri di Zannoni, nè visto film di Guadagnino ma, a naso, non mi sono mai piaciuti. Sarà il mio fiuto lupesco. ;-)

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