A Haunting in Venice

Vedi l’introduzione di Keep Calm and Drink Coffee

Lo stroncano tutti come il solito gialletto rivisto, risaputo e prevedibile…

io ne farò invece un peana di adorazione del tutto personale, poiché, per puro gusto, io i film come questo li adoro…

Un enorme e produttivamente sapiente (tra i producers ancora Ridley Scott) apologo sulla necessità di conoscersi attraverso l’autorappresentazione inconscia dell’inganno artistico, l’inganno consapevole dell’arte e certamente del cinema…

tutte le inquadrature (dell’ormai fido Haris Zambarloukos, con Branagh dal 2007, con la sola eccezione del piccolo All is true, 2018, girato con pochi soldi da Zac Nicholson) significano e comunicano *cinema*, a partire dall’evocazione della lanterna magica all’inizio della storia e dall’ambientazione di Halloween, da sempre festa cinematografica…

una storia totalmente inconscia e freudiana piena di simboli e funzioni…

naturalmente i fantasmi, cioè i tormenti e le paure di ognuno, sono di due tipi, quelli della guerra appena conclusa (l’ambientazione dichiarata è il 1947) e quelli dell’infanzia: sono ovviamente bambini gli infestanti del vecchio Palazzo, così costruito (da John Paul Kelly, per la prima volta con Branagh) e ribadito nella sua finzione da essere metafora di set, di teatro, dell’azione ancestrale di trasformarsi e mascherarsi per diventare, in allegoria, qualcos’altro…

l’inconscio dei bambini trattati male che diventano adulti folli e guerrafondai, capaci delle peggiori nefandezze, anch’esse foriere di traumi…

tutti i personaggi sono link allo stesso Poirot:

  • Jamie Dorman condivide con Poirot lo stress post-traumatico bellico;
  • Kelly Reilly palesa l’istinto soffocante e giudicante che Poirot spesso infligge agli altri, compresa l’amata Katherine;
  • Jude Hill, il ragazzino, è Poirot piccolo;
  • Ali Kahn ed Emma Laird sono la tragica e illogica voglia di speranza (andare in Missouri) che permane nonostante gli orrori e a cui Poirot vorrebbe tanto credere (anche alla fine di Death on the Nile, Poirot si fidava della speranza e andava alla ricerca del suo possibile nuovo amore);
  • Kyle Allen figura l’amore perduto che Poirot ha vissuto con Katherine;
  • Camille Cottin è il senso di colpa che Poirot vive ogni volta che si occupa di un caso;
  • Michelle Yeoh è la maga trikkeballakke che Poirot in qualche modo ha in sé e che ogni volta smaschera, anche se sa benissimo che senza il trikkeballakke dell’inganno la vita è vuota: e infatti è vuoto il Poirot che troviamo all’inizio, ed è su consiglio di Yeoh che Poirot si abbandona a un momento di gioco;
  • Tina Fey è il Poirot sapiente nella narrazione, che però si effettua per intorbidare invece che per risolvere, e cioè una delle grandi paure di Poirot;
  • Riccardo Scamarcio è l’animo da poliziotto che si affeziona ai casi, esattamente come Poirot…

E tutte queste funzioni, queste diverse personalità, si scambiano e intrecciano in un set, in un Palazzo degli Orrori, che è ovviamente mente e inconscio, fatto di passaggi segreti e anfratti così come è fatta la mente (vedi anche i cunicoli nascosti che Branagh ha voluto nel palazzo di Hamlet, ’96) e bagnato dall’acqua, dove muore la vittima primigenia (il senso di colpa primigenio), che è da sempre simbolo di inconscio…

La soluzione ai gangli preoccupati e traumatizzati della psiche (derivati dalle stragi dell’infanzia e poi, gigantizzate, della guerra, effettiva o esistenziale che sia) arriva solo quando si accèttano le diverse pulsioni e le diverse paure, quando le si affronta a viso aperto, sì per smascherarle, ma non per reprimerle né per cancellarle, ma solo per connetterle tutte alla complessità della vita e dell’esistenza fallace: un affrontare le paure che è una consapevolezza più che una cura, un’accettazione dell’essere più che un cambiamento… [da notare l’avversione dei bimbi fantasmi per i dottori propriamente detti: come se la mente malata, infantile e poi traumatizzata dagli eventi bellici, avesse a noia gli interventi professionali, per terrori quasi “primordiali”, anche se è grazie a quelli che poi si implementano gli inganni benevoli: difatti Jamie Dorman, dottore, è esso stesso vittima, e nel dramma dell’esistenza non ci incastra niente!]

e la serenità delle diverse pulsioni la si trova, ovviamente, usando lo stesso inganno che ci affligge per scopi taumaturgici invece che menzogneri: quando cioè gli inganni si fanno per terapia invece che per cattiveria; quando gli inganni palesano il problema invece di mascherarlo e nasconderlo…

e ovviamente gli inganni “terapeutici” sono quelli del cinema, del Palazzo set ma anche dello stupeficio del macchinario, dei giochi di luce, degli specchi onnipresenti, del suono diegetico, della fotografia superbamente inventiva, giocosa e palese, capace di giochesse lussuose davvero mirabili: un cinema allo stato puro che proprio attraverso l’inganno smaschera l’inganno, che è l’ancestrale paideia tespiana del teatro, della narrazione, della catarsi aristotelica: vedersi rappresentati, quindi capirsi e riinventarsi in un nuovo inganno della vita, stavolta però consapevole: una vita che conosce i suoi traumi e li usa per esistere invece che per sottrarsi al divenire…

Sono tematiche facili, riviste, e che Branagh produce da molti anni:
i giochi inconsci delle maschere e degli incubi erano in Dead Again (1991: il suo secondo lungometraggio) [anche Much Ado about Nothing, 1993, ha una magnifica sequenza in maschera],
e le istanze metateatrali sono dappertutto nei suoi film, da Hamlet (che solo dopo aver visto la reazione di Claudio a teatro capisce che l’inganno, lo spettro del padre, è verità invece che allucinazione) a As you like it (che palesa la sua natura di finzione inquadrando, alla fine, lo stesso set, con tanto di roulotte degli attori), a, ovviamente, In the Bleak Midwinter (’95) e Mary Shelley’s Frankenstein (’94) vero e proprio trattato di finzione cinemtatografica…

e che innervano gli altri due suoi bellissimi Poirot: Murder on the Orient Express e Death on the Nile

e che ci sono sempre nei film che a me slurpano (vedi anche Jesus Christ Superstar)…

per cui è un film che, date le tematiche, non poteva non piacermi…

e infatti l’ho adorato!

Prima volta di Branagh con Hildur Guðnadóttir, ed è una cosa più unica che rara, visto che Branagh ha pressoché sempre le musiche di Patrick Doyle (Swan Song e In the Bleak Midwinter erano con Jimmy Yuill, sodale di Branagh della prima ora e anche suo attore [anche Doyle qualche volta appare in particine]; Peter’s Friends non ha musicisti accreditati, ma devo ricontrollare; The Magic Flute è un film-opera di Mozart; Belfast ha musichette di Van Morrison)…

La sua musica è simile al film: all’apparenza classico decotto dei soliti archi (che da Bernard Herrmann in poi, passando per gente come Hans Werner Henze, sono il paradigma della tensione cinematografica) è invece, sotto sotto, portatrice di particolari rapporti intervallari nelle “melodie”: stupendo! [da notare a margine l’uso del violoncello, molto caro a Branagh, vedi anche il tema disperato che Doyle affida al violoncello in Sleuth]

Mi scordavo:
tutto il film è assimilabile, per fattura, essenza, diegesi e valenza cinematografica, a What Lies Beneath di Zemeckis, 2000…

7 risposte a "A Haunting in Venice"

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  1. Sai che cosa ho apprezzato di questo film? L’atmosfera gotica. Il film precedente non l’avevo apprezzati per niente, soprattutto per quanto riguarda la fotografia che, nonostante dovesse essere lucente e accesa, risultava quasi spenta. Questo capitolo mi è piaciuto sia sul lato tecnico sia su come abbiano modificato un pò la storia del romanzo, creando quindi una certa sorpresa. I primi due capitoli mi hanno lasciato una sensazione di freddo. Questo invece mi ha convinto.

    1. Ormai posso dirmi un fan sfegatato del Poirot di Branagh: ho adorato tutti e tre! E se adesso gli fanno fare Miss Murple, come spero, mi sa che adorerò anche lei!

      1. Davvero? Questo non lo sapevo. Se riesce a fare Miss Marple come quest’ultimo film allora sono più che d’accordo.

  2. Tutti i personaggi sono connessi a Poirot? Quindi alla fine ci siamo arrivati, ai 10 Piccoli Branagh!! Scherzi a parte, devo ancora vedere sia il Nilo che questo, quindi è presto per giudicare. Il cast è importante, come sempre, e l’ambientazione suggestiva. Poi, se non ho vuoti di memoria, qui la sceneggiatura non è basata su un’opera di Agatha Christie… Sono molto curiosa, anche se non avevo amato il primo dei 3 film.

  3. Chiedimi se sono felice!
    Lo sapevo!
    Fin dai primi cenni di notizie questo film è stato magnetico: come te trovo una serie di ingredienti che adoro.
    La connessione tra tutti i personaggi e Poirot poi è cosa sublime.

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