Messa da Requiem Verdi/Chung

Io sono un super-fan di Myung-Whun Chung…
Proprio, davvero, riguardo a lui non sono oggettivo…
Mi sono anche informato sulla pronuncia del suo nome: in Corea, nella denominazione ufficiale, si antepone il cognome al nome (come si faceva, e forse si fa ancora, in Ungheria e Romania, e come qui in Italia si fa a scuola o al servizio elettorale), e quindi sarebbe Chung Myung-Whun, che dovrebbe suonare qualcosa come Ciàn Miàn Hun…
Tra l’altro, per la traslitterazione “comune” si dovrebbe scrivere Myung-whun Chung, mentre per il sistema “scientifico”, stabilito da McCune & Reischauer intorno al 1937, si dovrebbe scrivere Chŏng Myŏnghun, e, ancora, per la semplificata ed esattissima “nuova romanizzazione” (la Revised Romanization), stabilita dallo stesso governo sudcoreano nel 2000 per eliminare i segni diacritici in eccesso, sarebbe Jeong Myeonghun…
Ero al settimo cielo quando ho scoperto che tornava a Firenze (è stato per molti anni direttore ospite, prima di Semën Byčkóv, ed era già “rientrato” mi sembra l’anno scorso, ma non andai a vederlo perché il programma di solo Mozart che presentava non mi sconfinferava: a me Mozart, tranne rari casi, fa solo dormire, un po’ come Schubert, Berlioz, Mahler, il Debussy pianistico e tanti e tanti altri, in special modo Brahms: sono di gusti assai complicati…)
Stavolta tornava con la Messa da Requiem di Verdi!
Imperdibile!

Io, lo sapete bene, voglio bene a Zubin Mehta, ma ultimamente mi trovo sempre a considerare che la sua lunghissima tenuta a Firenze abbia, nel lungo periodo, fatto più male che bene all’orchestra del Maggio…
Ieri parlavo con miei amici musicisti (Simona e Simone), che mi confermavano la grande maestria di Mehta: per un orchestrale Mehta è la gioia pura: preciso, solfeggia, batte e dà l’attacco a qualsiasi cosa: il suo gesto è millimetrico: con lui non puoi sbagliare… Questa è senz’atro una cosa buona, ma se non è accompagnata da una certa “varietas” direttoriale (cioè a un cambiamento di bacchetta che si possa dire abbastanza frequente), allora porta all’adagiarsi, al deresponsabilizzarsi, all’impigrirsi… E Mehta, la “varietas” direttoriale, è un po’ di anni che non la garantisce affatto… Non solo: quando arrivavano altri direttori, l’orchestra non era al massimo, priva di quel Mehta ormai “padre-padrone”…
Con il Maggio, dagli anni 2000 in poi, Mehta ha voluto occuparsi personalmente di cose che potevano essere lasciate a mani più esperte (il «Nevskij» di Prokof’ev, per esempio), e ha imposto, spesso, un repertorio molto ripetitivo (non si contano davvero le milionate di riprese di «Petruška», di «Also sprach Zarathustra», del «Sacre du Printemps», di Bruckner, della Prima di Mahler, di «Turandot» e «Tosca», di un Verdi un po’ “risaputo”, dei concerti per pianoforte di Beethoven fatti sempre con Rudolf Buchbinder), che si replicava sempre uguale a se stesso, in modo molte volte robotico, perfetto (anche grazie all’implacabile gesto di Mehta), ma quasi senz’anima… e, soprattutto, PRIVO DI QUALSIVOGLIA INTERPRETAZIONE: tutte le volte le riproposizioni dello stesso pezzo erano identiche, da immaginario collettivo, frutto solo di memoria e non più di “scavo” esegetico (che, se mai c’era stato da parte di Mehta, c’era stato le prime volte che dirigeva quei pezzi, e cioè risaliva spesso al 1960, e mai era cambiato da allora, in una “fotocopiatura” più da macchina che da persona)… Le uniche volte, dal 2000 in poi, in cui Mehta non è andato a memoria (nella «Frau ohne Schatten», nel «Rosenkavalier», e nella «Věc Makropulos») abbiamo avuto a Firenze un po’ di “emozione”, ma sono state davvero pochissime volte… Per il resto ci fu lussuosissimo professionismo, bellissimo quanto si vuole, ma certamente “tecnico” più che “artistico”…

Una cosa che ha portato, come si diceva, all'”adagiarsi”: quando non c’era lui, le cose non erano mai perfette… e hanno cominciato a non essere perfette neanche quando c’era lui!
A Firenze, ormai casa sua, i suoi gesti sono diventati sempre più automaticissimi (cosa evidente soprattutto nel replicatissimo Beethoven: la Nona e la Settima le dirigeva quasi con un dito tanto era l’automatismo), cosa che, molte volte, ha mandato in confusione la pur volenterosa orchestra (nel «Nevskij» dell’anno scorso, la «Battaglia del ghiaccio» è stata dura da mantenere nel ritmo, visto che Mehta decise di dirigerla quasi solo con le sopracciglia!)…

Questa “fine” che ha fatto (e sta facendo) il Maggio è stata la “fine” che hanno fatto anche tutte le orchestre che Mehta ha tenuto per più di 10 anni: è la fine che hanno fatto anche la New York Philharmonic e la Israel Philharmonic… tutte formazioni che hanno sofferto la “presenza” e il professionismo smagliante ma robotico di Mehta… Ho già detto in post precedenti che Kurt Masur, al suo arrivo a New York, successivo alla tenuta di Mehta (la più lunga della storia della New York Philharmonic, più lunga anche di quella di Lenny Bernstein), dovette sgobbare per ripristinare uno “standard” di disciplina interpretativa che non fosse l’automatismo! La Israel si è “salvata” in maggior misura solo grazie alle ottime “ospitate” (Bernstein, ancora Masur, Noseda ecc.) — E succede così molte volte quando un direttore comincia a trattare l’orchestra come roba sua: successe così con Hans Knappertsbusch a Bayreuth e, soprattutto, alla Bayerisches Staatsorchester, negli anni ’20-’30: arrivarono a un tale livello di automatismo (anche Knappertsbusch proponeva sempre le stesse cose e gli stessi 3 autori, Wagner, Bruckner e Strauss, che dirigeva con le occhiate e le sopracciglia, quasi senza muoversi) da smettere perfino di fare le prove, con la scusa: «è venuto male, verrà meglio l’anno prossimo!»; e successe così a Riccardo Muti e La Scala (Muti, un esperto verdiano, volle dirigere per forza perfino i «Dialogues des Carmelites» di Poulenc: li fece sì benissimo, ma poteva senz’altro lasciare il passo, per una volta, a un esperto novecentista — e anche la «Manon Lescaut» di Puccini avrebbe potuto lasciarla fare ad altri…)

In questo clima di aureo decadentismo del Maggio, con Mehta che apre, finalmente, all’arrivo di qualcun altro (quel Luisi che mi è così poco piaciuto la scorsa settimana), torna, bello come il sole, Jeong Myeonghun!

E Jeong torna portando con sé una dose assai massiccia di INTERPRETAZIONE… forse così tanta che, di prim’acchito, l’orchestra non ha saputo neanche reggerla!
Anche Jeong si muove poco, come Mehta, ma perché si aspetta una “pulsazione” autonoma che il Maggio non ha più, abituato com’è a ricevere gli attacchi (anche se arrivano con le sopracciglia): da questa “mancanza” di attacchi (che Jeong dava eh, attenzione, ma li dava con un gesto molto più “aperto” e per nulla robotico! e cioè con un gesto del tutto contrario a quello di Mehta) sono nati due o tre momenti di “scarto”: la fughetta del Sanctus è stato uno di quelli più evidenti, ma si avvertivano anche nella poca compattezza complessiva in cui certi “soli” dei vari reparti (per esempio gli ottoni) collimavano poco con l’insieme orchestrale, e si percepivano anche in certi attacchi, quasi mai davvero precisissimi…
È anche vero che, in una performance live, è raro essere “al millimetro”… ed è anche vero che il taglio interpretativo di Jeong era così interessante e coinvolgente da riscattare quasi del tutto questi “problemi”…
Jeong ha letto il Requiem di Verdi sottolineandone la grande modernità. È stato un Requiem dai tempi abbastanza comodi, di una pienezza orchestrale passionosa e struggente, e di un andamento “oggettivo”, diretto e franco… Un Requiem doloroso ma non lagnoso, disperato ma non rassegnato, meno sacrale ma forse un po’ più “delirante”…
La paura della morte, sottolineata da Verdi con la ripresa solitaria del «Libera me» affidata al soprano, era presente, ma più come delusione terrorizzata che come tragedia “credente”… Della serie: non si capiva se all’inferno ci si va «perché si ha una paura irrazionale di andarci» o perché semplicemente l’inferno c’è, senza dubbio, e noi ce lo meritiamo…

Molte volte, mi è sembrato che Jeong insistesse sulla seconda accezione: l’inferno c’è, e ci si andrà, senza dubbio… per cui mettersi a piangere è inutile… è concesso arrabbiarsi un po’, ma in fin dei conti, quasi alla Kafka, siccome siamo consapevoli di essere colpevoli, allora è giusto anche ringhiare poco e andare all’inferno belli zitti…

Un Requiem, quindi, estraneo alle disperazioni romantiche (quelle di Liszt, di Berlioz) o pre-romantiche (di Cherubini, a cui molte volte il Requiem di Verdi è stato accostato), ma “passato al setaccio” di un modo di pensare quasi nichilista, novecentesco!
Jeong ha sentito nel Requiem di Verdi non quello che è stato prima, ma quello che è venuto dopo!
Era un Verdi zeppo di echi verso il futuro: verso il Novecento: verso l’«Oedipus Rex» di Stravinskij, verso il «War Requiem» di Britten, verso le sonorità di Henze, e, soprattutto, verso la religiosità oggettiva di Olivier Messiaen: molte volte la massa sonora, forte e diretta, sembrava quella della «Transfiguration» di Messiaen invece di quella del Requiem di Verdi!

Sento già i “puristi” dire: «eh, ma Verdi va fatto come Verdi, wa wa waaaaa!»… beh, a tutti questi puristi bisogna dire: «ragazzi miei: COSÌ SI INTERPRETA! perché se così non si fa, allora non si interpreta, ma semplicemente si legge… e leggere, beh, dopo miliardi di volte, non serve più a niente… perché la semplice lettura, dopo un po’, distrugge perfino la comprensione: come quando si ripete a memoria una poesia tante di quelle volte che la ripetiamo sì, ma non sappiamo più cosa effettivamente voglia dire… — ed è quello che s’è fatto, in tanti anni, con Verdi, Mascagni, Puccini, Bellini e Donizetti: si sono talmente fatti sempre uguali che adesso non siamo neanche più in grado di capire che cosa effettivamente abbiano “detto” al loro tempo!»

Ben vengano concerti come questo!
e ben venga Jeong: per uno spettatore, il suo gesto è bellissimo, di quelli da cui sembrano “sgorgare” i suoni!
e da quel gesto si originava questa magnifica INTERPRETAZIONE, così bella, così stimolante, da volerla risentire 30 mila volte: spero che Jeong la registri per analizzarla con le cuffie all’infinito!

Come detto, il Maggio ha seguito un po’ col fiatone Jeong in questa sua interpretazione (poiché se il suo gesto è meraviglioso per il pubblico lo è effettivamente un po’ di meno per musicisti non più abituati a interpretare)… e per questo è da auspicare un lavoro grosso, di Luisi, per rendere in grado l’orchestra di gestire anche queste ospitate!

i cantanti:
il tenore teneva una mezza voce quasi falsettosa, carina e precisa, ma certamente non adeguata: però, forse, rispondeva anche lui a una logica di “novecentizzazione” (sono “tenoretti” sia quelli del «War Requiem» sia quelli stravinskiani a cui, s’è detto, Jeong sembrava voler tendere)… in ogni caso mi ha lasciato non sconcertato (non stonava), ma senz’altro perplesso…

Il soprano era Maria José Siri, la cantante del momento grazie alla Butterfly scaligera dello scorso dicembre… Io la conosco da quando proprio Mehta la chiamò qualche anno fa come l’Aida del secondo cast (understudy di Hui He) nel debutto operistico di Ozpetek… Già allora, vista la tessitura molto “cristallina”, capii che aveva un futuro pucciniano e non verdiano, e difatti credo, visto anche l’ottimo risultato con Chailly alla Scala, che continuerà là, e le auguro tanta fortuna, in Mimì, Tosca, Magda, Giorgetta, Liù e, col tempo, perché no, Turandot, poiché, al contrario, in Verdi, certi sdilinquimenti vanno meno bene: il suo sistematico arrivare al “tono” giusto dopo un momento di “meditazione”, in Puccini può anche starci, ma in Verdi sembrava più un “effetto doppler”, o una leva di un mixer difettosa che ti alza il volume solo dopo che il suono è cominciato… se cantava A, cantava qualcosa come aA, in un simil “giambo” assolutamente incomprensibile… Il suo timbro, però, a me piace moltissimo: sembra quello squillante di Gianna d’Angelo, con molto più controllo e più venature!

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