«One from the Heart» di Francis Ford Coppola, 1982

Quasi tutti i film, da Edison e Dickson a Méliès alla grande Hollywood dal 1920 al 1966, sono stati girati in studio…
furono il Neorealismo (dal 1945) e la Nouvelle vague (dal 1958) ad aprire alle riprese esterne, grazie a ingenti innovazioni nelle cineprese…

Un po’ come è stato per la musica classica e il serialismo, anche in cinema ci fu il pregiudizio fuoriuscito dal trauma nazista: se la musica tonale aveva “fatto” Hitler allora quella musica andava rifiutata in favore di quel che vi si opponeva (il serialismo); e se i film in studio erano quelli fatti dalla dittatura nazisfascista (soprattutto quelli fascisti) allora quei film andavano cestinati in favore di quel che ne rappresentava l’opposto, cioè i film girati tutti all’esterno, con la macchina a mano magari, in pieno happening, oppure con fluidi piani sequenza che facevano combaciare il tempo dell’azione col tempo del girato, senza “fintismi” (cioè il piano sequenza nella filosofia di Luchino Visconti, che però trascura tutte le implicazioni ontologicamente fintose del piano sequenza)…

Ma la dicotomia tra live e studio era all’ordine del giorno anche prima del 1945…

Un quadro, per esempio: era più bello un quadro posato in studio (come quelli di William Bouguereau, per dirne uno; oppure Goya) o un quadro “catturato” col cavalletto direttamente all’aperto, come quelli di Monet, Manet, Cézanne e compagnia bella…?

Il dualismo tra “costruzione controllata” e “cattura live dell’happening” è una componente insolubile del nostro pensare l’arte, e il cinema in particolare…

Dopo Godfather, nel 1972, Francis Ford Coppola tenne per diversi anni la nascente New Hollywood (cenni in Spielberg I) per la collottola…

Godfather fece così tanti soldi sonanti da spazzare quasi via i problemi economico-sociali successivi al 1965 che gravavano sull’industria cinematografica americana (dall’antitrust che sfalcidiava i cinema privati delle major, all’industria del tempo libero, o proprio l’industria tout court, anche quella petrolifera, che sfruttava l’impasse per comprarsi tutto quel che si poteva a livello di cinema)…

Dall’alto di questo successo, che fece il bis anche con Godfather. Part II, nel 1974, Coppola organizzò l’ingresso nella serie A di George Lucas (dopo THX 1138 del ’71) con American Graffiti (’73) e Star Wars (’77), e coltivò talenti come quello di John Milius, proprio mentre Steven Spielberg otteneva ancora più soldi di Godfather con Jaws (’75)…

Altri due registi, nello stesso periodo, ebbero lo stesso status di privilegiati grazie ai soldi guadagnati (comunque meno soldi rispetto a Godfather): William Friedkin e Peter Bogdanovich…
Friedkin grazie a The French Connection (’71) e The Exorcist (’73)…
Bogdanovich grazie a The Last Picture Show (’71) e Paper Moon (’73)…

Coppola, Friedkin e Bogdanovich…
e poi Lucas e Spielberg…

I primi sono stati i padri dei secondi…

ma sono stati i secondi che hanno “ricostruito” grazie all’eredità avuta dai padri

i padri hanno sì cavalcato il successo e promosso talenti, ma ben presto non si sono più riconosciuti nell’industria che prosperava di nuovo…
e sono andati a tentoni…

e se gli Spielberg e i Lucas hanno ben ragionato da subito in termini industriali, cross-mediali e commerciali, Coppola, Friedkin e Bogdanovich hanno faticato a fare i film giusto per “vendere” (e magari vendere qualcos’altro e non il film stesso!)…

Le loro carriere, dopo i trionfi di Jaws che riinnescarono l’industria, e soprattutto dopo il flop di Heaven’s Gate di Cimino (’80) che simbolicamente sancì la fine della libertà creativa dei registi nella Hollywood rinata, sono state un susseguirsi di disfatte, anche filosofiche, pesantissime…

Friedkin buttò via soldi e reputazione in Sorcerer (’77)…
Bogdanovich ebbe tragici problemi personali: era il fidanzato ufficiale di Dorothy Stratten quando fu uccisa nel 1980 e per garantire una distribuzione all’ultimo film di lei (girato da Bogdanovich: They All Laughed, ’81) si indebitò tantissimo…

Coppola riuscì a opporsi all’industria creando un film personale, completamente speculativo, che, appunto per connotarsi come “artistico”, in accordo alle idee post-1945 sull’arte cinematografica che è meglio en plain air, fu girato in esterni: Apocalypse Now (’79)…

La troupe di Apocalypse Now girò per quasi 300 giorni nelle Filippine, in mezzo ai tifoni, alle giungle e agli insetti…
Oltre a quella principale di Vittorio Storaro (alla prima esperienza con Coppola e alla prima esperienza americana, vedi anche Il conformista) c’erano seconde unità guidate da Stephen H. Burum e Caleb Deschanel e ben 4 montatori assemblarono il tutto, con almeno sei diverse varianti distribuite in varie occasioni (quella proiettata a Cannes, quella in 35mm vista nelle sale nel ’79, quella in 70mm tornata in sala nel 1987, Apocalypse Now Redux del 2001, Apocalypse Now First Assembly del 2008, Apocalypse Now Final Cut del 2019)…
Un film così complicato e orgogliosamente anti-industriale, preparato quasi come una performance speciale, quasi un evento teatrale (se l’ispirazione tematica fu Heart of Darkness di Conrad, le “antiispirazioni” plurimediali furono Paradise Now di Julian Beck, Judith Malina e il Living Theatre del ’68-’70 e le più di 7h dell’Hitler di Hans-Jürgen Syberberg che Coppola distribuì di persona nel ’77), tanto da passare in sala, certe volte, perfino privo di titoli per cast e tecnici, comunicati con foglietti in stile «programma di sala» delle pièce distribuiti dalle maschere direttamente agli spettatori, fu una sbobba bella grossa da somatizzare… in mezzo a una Hollywood sempre più pressata dal business

Dopo uno sforzo così titanico e così artistico, è difficile capire perché Coppola, una volta capito l’andazzo economico del cinema, si sia buttato a girare un film come One from the Heart

Quasi per “smentire” la natura sulla pelle di Apocalypse Now, One from the Heart è girato completamente in studio, non c’è un fotogramma girato all’aperto… e l’«aperto», che sarebbe Las Vegas, l’ambientazione diegetica, è completamente costruito in studio, lo studio privato di Coppola a San Francisco (l’American Zoetrope Studio)…

Eppure, esattamente come Apocalypse Now, One from the Heart ha motivazioni teatrali…
Se Apocalypse Now prendeva l’idea del teatro come realtà, come visione effettiva e veritiera di veri attori agenti *per davvero* davanti al pubblico, One from the Heart dimostra al contrario l’ontologia fittizia che si cela perfino in quelle azioni che a teatro vediamo *davvero*…

One from the Heart si apre e si chiude con il sipario…
inizia con oniriche visioni desertiche…
è illuminato da esagitate luci da palcoscenico…
la ricostruzione in studio di Las Vegas, così tanto elaborata (One from the Heart, insieme a Godfather. Part II, è stato l’opus magnum di Dean Tavoularis e Angelo Graham, quasi il lavoro della vita), tanto da costruire perfino un intero aeroporto e un intero aereo, è palesata dal cielo che rimane pittorico, davvero come una quinta teatrale…
la vicenda narrata è inverosimile e perennemente invasa dalle canzoni extradiegetiche, cantate fuori campo da Tom Waits e Crystal Gale, che quasi “doppiano” e “raccontano” le azioni degli attori, con particolare effetto estraniante…

è davvero difficile capire perché Coppola abbia voluto fare un film così l’anno di E.T., di An Officer and a Gentleman, di Rocky III, di Rambo, di 48 Hrs., di Porky’s, con tanto di diavolerie tecniche da sperimentare (oltre alle soluzioni fotografiche, preparate da Storaro e Ron Garcia [le date forse permettono di ipotizzare uno Storaro presente sul set non completamente perché impegnato nel Wagner di Tony Palmer, ma sono solo suggestioni], e che risultarono nel peculiare formato 1,37:1, Coppola inventò per il film una specie di antesignano dello schermo combo per vedere in diretta il girato su uno schermo video, così da poter dirigere il film da sdraiato comodamente in roulotte!) e con tanto di litigi con lo studio (la MGM), che sono risultati in una costosa distribuzione privata (appunto della American Zoetrope, la compagnia ancora oggi appartenente alla famiglia Coppola, e che era stata fondata nel ’69 e che fu tanto foraggiata dai soldi di Godfather, che però era targato Paramount)…

Col senno di poi, One from the Heart sembra un suicidio artistico… quasi più del Sorcerer di Friedkin (così costoso e così drammaticamente privo dei divi adatti ad attrarre il pubblico necessario alla speranzosa idea di recuperare la spesa)… e quasi più di Apocalypse Now, che con la sua portata artistica il successo lo aveva comunque fatto, il classico successo del monstrum che suscita curiosità…

One from the Heart si presentava senza nomi di grido…
si presentava grumoso di intensa filosofia dell’immagine, con implicazioni simboliche di statuto tra finto e vero davvero enormi…
e si presentava anche anacronistico, omaggiante un cinema del passato, tutto in studio e tutto scacciapensieri, dalle parti di Gene Kelly (che Coppola chiamò come consulente di Kenny Ortega, coreografo destinato a una felicissima carriera anche come regista), quasi anni ’30 e ’40 e primi ’50, quasi *privo di trama*…

o con una trama oggi quasi insopportabile:
dopo il suono di una pallina di roulette cadente sul numero, si apre il sipario e si accendono le luci dello show…
i titoli iniziali stranianti appaiono su costruzioni affioranti da sabbie a forma di donne nude…
e Tom Waits e Crystal Gale cantano mentre gli attori recitano…

due attori amici di Coppola, Teri Garr (grande stella per Mel Brooks [è Inga in Young Frankenstein, ’74] e Spielberg [è la moglie di Dreyfuss in Close Encounters, ’77], e usata da Coppola in The Conversation, ’74, e The Black Stallion, ’79, distribuito dalla Zoetrope) e Frederic Forrest (con Coppola già in The Conversation e Apocalypse Now e tornerà anche in Hammett, targato Zoetrope, e in Tucker) interpretano una coppia che sta insieme da 5 anni: l’anniversario cade il 4 luglio… la sera prima i due si scambiano i regali: lei, impiegata in una agenzia di viaggi, ha comprato due biglietti scontati per Bora-Bora; lui, del tutto disinteressato alle avventure esotiche, ha invece usato i soldi di entrambi per comprare completamente la casa nella periferia di Las Vegas dove invece lei pensava di stare solo temporaneamente…
mentre la macchina da presa li guarda come da lontano, quasi proprio come uno spettatore, anche se non disdegna di aggirarsi sinuosa tra le stanze della casa, i due prima fanno l’amore (lui dice perfino di volere un figlio, cosa che lei non sembra gradire per niente) poi si mettono a litigare per una serie di problemi pregressi, il tutto mentre, intorno a loro, i colori, provenienti dalle luci filtranti dalle finestre, senza stacchi di montaggio, cambiano a seconda degli stati d’animo, in uno spettacolo illuminotecnico dal vivo prodigioso (che Storaro riciclerà nelle sue collaborazioni con Carlos Saura e Woody Allen, soprattutto Wonder Wheel; e i colori usati già preludono a quelli di Dick Tracy, di Beatty, 1990)…
durante il litigio i due si rinfacciano incomprensioni avvenute nel passato ultimo dell’anno: lei ha baciato un amico di lui (interpretato dal grande Harry Dean Stanton) ma lui andò direttamente a letto con un’altra…
lui, da vero maschio, ritiene il suo tradimento trascurabile, mentre pensa al semplice bacio dato da lei a un altro come una tragedia…
dopo il litigio lei scappa a dormire da un’amica (interpretata da Lainie Kazan) e lui va a chiarirsi con l’amico (con Stanton)…
Stanton dice a Forrest che quello con Garr fu solo un bacio da ultimo dell’anno, mentre Kazan insiste con Garr che la coppia Garr-Forrest ormai è fatta ed è inutile lasciarsi: sono fatti l’uno per l’altra…
Mentre Forrest è da Stanton e mentre Garr è da Kazan, Storaro, Coppola e i montatori (che sono ben tre, con a capo Anne Goursaud, che monterà altri due film di Coppola, il Dracula e The Outsiders) li sovrappongono: invece di montare in sequenza, con stacchi, quel che accade a uno e poi quel che accade all’altro (che sarebbe il metodo di Mike Nichols, che però lo implementa più di 20 anni dopo), il passaggio da un protagonista all’altro è affidato quasi a cambi scena teatrali, con un protagonista che appare in luce sullo sfondo mentre l’altro pian piano si spegne mentre lascia la scena…

Garr non è nella stessa stanza di Forrest: è in un altro posto, e la sua proiezione sancisce il cambio di spazio, il cambio di scena teatrale…

Il 4 luglio, Forrest e Garr passano la giornata separati…
Garr incontra Raul Julia, aspirante cantante, che la invita alla sua soirée in un Casinó…
Forrest incontra niente meno che Nastassja Kinski, all’apice della sua bellezza (alla sua prima esperienza americana subito prima del Cat People di Schrader, uscito anche lui nell”82, vedi Bellissimi coetanei), nei panni di una ballerina di circo… e Kinski si concede a Forrest quasi subito! Gli dà appuntamento in un Hotel per la sera…
Garr e Forrest hanno ancora la loro roba nella loro comune casa e si incontrano per caso quando vanno a mettersi in ghingheri per le loro rispettive serate…
ovviamente Forrest vuole accellerare sull’intimo, sicuro di fare pace, ma Garr riesce ad andare via…
Garr trova Julia per caso a fare il cameriere in un ristorante (gestito da Allen Garfield, faccia di Coppola anche in The Conversation), e Julia ammette che la sua soirée è saltata, e forse non è mai esistita: Julia invita Garr nella sua camera d’albergo: si avviano e trovano la città già in subbuglio per il 4 luglio…
Intanto Forrest ha sognato Kinski in tutte le maniere, vedendola anche nelle antropomorfiche luci intermittenti dei Casinó…

E quando l’appuntamento con Kinski si avvicina, i quattro si incrociano per un attimo nella folla del 4 luglio… ma, a parte intensi sguardi, non succede nulla…
Garr e Julia ballano (in una sequenza a cui lavorò Kelly: nel 1982, Coppola montò una versione che era contraria ai voleri di Kelly, mentre nel restauro del film, avvenuto nel 2003 per il DVD, e cioè la versione che ho visto io, Coppola ha invece montato la versione seguente i dettami di Kelly), e fanno l’amore appassionatamente, sognando Bora-Bora, che, al contrario di Forrest, Julia ama moltissimo…
Anche Forrest e Kinski fanno l’amore, ma mentre Garr e Julia, a parte le oniriche scene di ballo, si muovono in camere d’albergo quasi “verosimili”, Forrest e Kinski si ritrovano quasi in uno spazio privo di senso, un pezzo di deserto con rottami cartapestosi…

La mattina dopo, Forrest si pente subito di essere stato con Kinski, ma, ancora da maschio, considera la sua “botta e via” una cosa da niente, mentre pensa alla scappatella di Garr con Julia come a una catastrofe morale…
Kinski la prende con filosofia, ma sembra in qualche modo dispiacersi… nello stesso tempo, però, quasi si autoproclama un sogno dicendo che basta chiudere gli occhi perché la ragazza del circo scompaia come uno sputo su una piastra rovente (il dialogo è: «If you wanna get rid of a circus girl, all you’ve gotta do is close your eyes.», «Yeah? Then what, circus girl?», «She disappears. Like spit on a griddle»)…
Kinski accetta di accompagnare Forrest alla casa che ha in comune con Garr, ma Garr ovviamente non è là, allora Forrest, con Stanton, decide di andare da Kazan per capire dove sia Garr, ed è a quel punto che Kinski scompare davvero: da un momento all’altro… e né Forrest né Stanton sembrano preoccuparsi: Kinski, la circus girl, forse era davvero un sogno? (ricordiamoci il titolo italiano di One from the Heart: Un sogno lungo un giorno)…
Forrest trova Garr a letto con Julia all’albergo e la trascina di peso, praticamente nuda (One from the Heart è un film che ha molto “scoperto” il corpo di Teri Garr), in auto per riportarla alla loro casa comune…
Lì litigano di nuovo, perché Forrest rivendica la sua natura di noioso orso maschio, incapace sia di cantare sia di andare a Bora-Bora, e non ci trova nulla di male…
Garr torna da Julia e decide di andare con lui a Bora-Bora…
Forrest li insegue all’aeroporto, fino all’entrata dell’aereo, con ridicole suppliche a Garr di restare a Las Vegas: Forrest cerca anche di cantare!
Ma niente: Garr parte…
Triste, Forrest torna alla casa comune, frignante…
Ma dopo un po’ arriva Garr, a dire di aver commesso «un errore», a riconciliarsi come per magia con Forrest e a ricucire la coppia…
Mentre fuori il cielo teatrale incornicia il tramonto nel lampante set…

Il sipario si chiude e scorrono i titoli… e solo da essi scopriamo che tra la folla di Las Vegas figurano Rebecca De Mornay (allora fidanzata di Stanton) e addirittura Monica Scattini (la da poco scomparsa moglie di Er Patata); e che Garr e Julia, nell’ascensore dell’albergo, incontrano Carmine e Italia Coppola, i genitori del regista!

Perché fare un film così?

Un film in cui si capisce molto poco bene perché gioire per la riconciliazione di due protagonisti che per tutta la pellicola non hanno fatto altro che tradirsi e detestarsi, con un maschio così antiquato da rasentare la scorbutichezza anni ’40…

E, per di più, perché fare un film così quando si sta passando per la fase di onorato maestro?
dopo Apocalypse Now, Coppola sembrava ancora più sublime anche rispetto ai tempi del Godfather (cosa che non successe a Friedkin, che non ebbe un Apocalypse Now cronologicamente vicino capace di ammortizzare il flop di Sorcerer), e quindi perché spendere il proprio denaro per un film “sperimentale al contrario”, per un film musicale anni ’40 di stampo retro?
Un film che sembrava davvero voltare le spalle sia a Godfather sia alla maestria live di Apocalypse Now per rivolgersi di nuovo indietro, allo studio, alla cartapesta, all’inutile fintezza dei film precedenti il Neorealismo…
Perché rinnegare con un film così quanto fatto in passato?

Sono domande che non si risolvono…

E si può solo tentare di osservare alcune pieghe della realtà…

Osservare per esempio quanto Coppola fosse interessato al rapporto tra finzione e cinema fin dall’inizio e quanto avesse già calibrato quel rapporto passando dal teatro…

Coppola idolatrò Sergej Ejzenštejn, che, prima del cinema, fece il teatro…

e come Ejzenštejn capì che il profilmico spesso è teatrale, e che il montaggio di immagini “simboliche” dentro una cornice naturalistica non inficia la verosimiglianza ma anzi enfatizza gli stati d’animo (in Stačka [’25], le sovrapposizioni del mattatoio sul massacro della folla non sono realistiche ma sottolineano meglio di qualsiasi altra cosa la realtà: più della pedissequa ripresa dei pestaggi sulla gente!)…

esattamente come Ejzenštejn, anche Michael Powell utilizzò la costruzione teatrale non per sfizio di modellismo ma come supporto alla capacità di immaginazione…

e poi arrivò Mario Bava…

Coppola idolatrò tutti quanti e con One from the Heart ha tentato di seguirli…

One from the Heart è un tentativo di avvicinarsi a quegli idoli, un tentativo di Coppola di essere considerato un grande costruttore di cinema…

ed è anche per questo che One from the Heart, pur nel suo fallimento, segna e designa il Coppola del futuro…
One from the Heart è già Rumble Fish (’83: vedi il gioco coi colori); è già Tucker (’88: film che celebra la capacità di invenzione, immaginazione e appunto costruzione); è già il Dracula (’92: vera essenza della poesia della fabbricazione fittizia del cinema, ancora oggi, dopo 30 anni, insuperato! e anche in Dracula c’è Tom Waits!); è già Tetro (2009: calco dello Hoffmann di Powell); e probabilmente è già anche Megalopolis (pensato già nel 2001, da girare in digitale, segno della perenne spinta di Coppola verso l’innovazione, la componente hardware del fare cinema)

e considerandolo un concentrato di Coppola, nello studiare One from the Heart vediamo quanto non sia per niente in contraddizione con il live di Apocalypse Now

Perché studio e aria, luce naturale e luce artefatta, artigianale e naturale, fittizio e veritiero, sono false antinomie… Studio e plein air sono uno il sogno dell’altro…
Come già si intravedono le identità tra Lumière e Méliès (uno che si considerava scienziato e l’altro artista, uno che posizionava la macchina fuori per avere realismo e l’altro che la teneva sempre in studio per generare fantasia), entrambi plasmatori del cinema con gli ingredienti complementari del sogno e della realtà (andava a finire che il realismo di Lumière si palesava come ingegnerizzato nei riempimenti d’immagine pittorici, nello studio del tutto anti-reale della posizione della macchina da presa, e nella complessa aura di fluttuante “magia” che involontariamente questa impostazione imprimeva in filmati che volevano essere scientifici; e andava a finire che nel finto di Méliès si vedeva al contrario l’immenso immanente dei trucchi, della cartapesta, della pellicola elaborata in una realtà di ritorno, simile a quella che si prova quando si capisce il trucco, assai prosaico, del mago), in One from the Heart e Apocalypse Now ancora quegli ingredienti si presentano come consustanziali: l’apologo filosofico di Apocalypse Now denota speculazione perfino magica a dispetto di tutto il realismo esibito in poiesi, là dove la costruzione fittizia esagerata e aggettante di One from the Heart aiuta a rendicontare semplicemente la banalità della continuità della vita, tra abitudine e sogni a occhi aperti irrealizzabili, una continuità di routine tutta da piangere (una conclusione forse pessimista che salverebbe il finale, in riferimento anche alla canzone It’s Alright, Ma di Bob Dylan: 7′ e 30” di disagio intellettuale che finisce con «It’s alright, Ma, it’s life and life only»), perché, nella estrema finzione, è più vera del vero (ed è quasi più vero del vero l’angolo di strada di Las Vegas costruito da Tavoularis: una vera orgia di luci e comparse che rende, in finzione, quasi più tangibile il caos della città di quanto lo avrebbe reso la ripresa in esterna, magari afflitta da chissà quali problemi tarpanti le ali alla ricreazione della bolgia cittadina)…

One from the Heart, il flop, il film fintissimo ed estraniante di teatro, di canzoni invadenti, che sembrava così opposto ad Apocalypse Now ne è invece una costola… un corollario… quasi una riimmaginazione… una dolorosa presa di coscienza della caducità e delusione cartapestosa della vita condotta con le armi dello studio e della scena fotografata, là dove la stessa dolorosa coscienza esistenziale, in Apocalypse Now, era comunicata nelle vere giungle con i veri insetti nella grandeur della speculazione filosofica…

In più, One from the Heart, con la sua sopraffina componente sperimentale (le luci complicate, il video di controllo, la scenografia avanguardistica), esprime la voglia di combattere titanicamente quella ineluttabile delusione della vita con le armi della costruzione e dell’hardware, come se la capacità di invenzione rappresentasse un ottimismo della volontà da opporre al pessimismo della ragione (della constatazione che comunque la vita è una noia deludente)…

One from the Heart non è piacevole da rivedere…
ma aiuta a pensare all’evoluzione creativa della New Hollywood…

e aiuta a far riflettere, ancora una volta, sulla figura di Francis Ford Coppola…

One from the Heart è forse il film della sua vera poetica, come è 1492 per Ridley Scott (di solo 2 anni più vecchio di Coppola)…

una poetica che, studiandola, sta simpatica, perché è una poetica che passa per il rifiuto dei formati standardizzati dal mercato (e One from the Heart e Apocalypse Now, esulando entrambi, per filosofia e per nostalgia retro, dal gusto vigente in fatto di vendite, palesano il disprezzo di Coppola per lo smercio) e va sempre alla ricerca di nuove soluzioni, consustanzialmente tecniche e artistiche, nella convinzione che la tecnica È arte…

Per cui One from the Heart delude e annoia…

…ma ispira studio da fare apposta per comprenderlo…

e dallo studio ci si trova a considerare che, pur nella noia, One from the Heart contiene in nuce un seme di utopia dell’Arte, una speranza di perenne innovazione per il cinema, una fiducia nel mezzo e uno spettro delle sue possibilità espressive per nulla esauribili, che fanno perfino sognare un futuro…

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Una risposta a "«One from the Heart» di Francis Ford Coppola, 1982"

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  1. articolo molto interessante che ho capito in parte
    ma cmq è stato emozionante: sto studiando il cinema delle origini e in alcuni pezzi mi sono trovato con le conoscenze :)

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