Il signore delle formiche

È un film di quelli belli, di quelli che il cinema italiano faceva 30 anni fa, prima di Muccino e di Ozpetek, un film dal linguaggio cólto europeo, di quello che, allora, vinceva diversi premi d’essai, ricco di immagini significanti, di sensi estetici, di riflessioni sociali…
e, al contempo, del tutto ignaro delle logiche di ritmo e di passo narrativo adatte a un pubblico che abbia meno di 50 anni…

Una cifra interpretativa del Signore delle formiche si può forse dedurre dall’ultima situazione in cui due attori, vestiti e truccati come egizi da immaginario collettivo da Arena di Verona, mimano il duetto finale dell’Aida di Verdi (la numero 24 di Operas III): lo mimano perché Amelio inquadra il disco che suona mentre questi “mimano”: il disco (che riproduce l’Aida registrata per Decca da Herbert von Karajan alla Sofiensaal di Vienna nel settembre 1959, con i Wiener Philharmoniker, Carlo Bergonzi, Renata Tebaldi e Giulietta Simionato) diffonde la musica e gli attori fanno finta di cantare come la air band di Scrubs fa finta di suonare… [come non pensare al No hay banda di Mulholland Drive di Lynch?]
La stessa Aida, però la musica del preludio, ha accompagnato quasi tutto il film, commentando le fasi di innamoramento di Lo Cascio e Maltese… e in quell’ultima situazione, il finale di Aida, mimato, commenta il loro ultimo incontro…

Uno spettacolo mimato *sta per* un’opera lirica che invoca la pace in un mondo, quello di un mitico antico Egitto imperialista in conflitto con una mitica Etiopia, di guerra che condanna alla morte due persone che si amano, morte che sopraggiunge solo per odio generico, bellicistico, obnubilato dalla vendetta e dal fondamentalismo religioso…
E l’opera lirica mimata, essa stessa *sta per* un film che narra la storia di due persone che si amano, tra Castell’Arquato e Roma tra 1959 e 1969, che vengono separati a causa dello stesso odio generico, bellicistico, obnubilato dalla vendetta e dal fondamentalismo religioso…

Uno spettacolo che sta per un’opera che sta per un film…

E lo stare per, il distacco brechtiano, il Rauchentheater (vedi anche The Dead Don’t Die e Regia, regia, pur piccina che tu sia…) diventa la cifra del cinema di Amelio, che era la cifra del cinema italiano d’essai di 30 anni fa… che è la stessa cifra che abbiamo osservato nel Jesus Christ Superstar di Jewison: un cinema che, come quell’Aida mimata, mima la vicenda, la presenta come uno spettacolo consapevole di essere spettacolo, un agglomerato di simboli che evoca e catarticamente riporta alla visione e alla riflessione odierna una vicenda, un qualcosa, un atto, una serie di atti occorsi nel passato, o nell’immaginazione, che però sono necessari per essere letti come simulacro del contemporaneo, dell’oggi e del presente…

Amelio inquadra uno show di evocazione del caso Braibanti…

Il signore delle formiche

  • è recitato con polarità tra l’impostazione iperaccademica degli attoroni teatrali coinvolti (Lo Cascio, Visentin, Cracco, Binasco) e la palese imperizia dei non professionisti (Maltese, Antonacci, Boselli e altri), con una prosodia che mischia in maniera estraniante le malaccorte litanie alla Huillet & Straub, spesso in dialetto, e l’affettazione enfatica e iperbolica dei mattatori príncipi della scena, tutte con una dizione cristallinamente precisissima…
    i movimenti di questi evidenti attori sono quasi convenzionali, quasi da Teatro Nō: i giri in bicicletta dei fratelli, un esempio tra i più lampanti, sono la rappresentazione di due in bicicletta più che effettivamente due in bicicletta, poiché sembrano agire sapendo che qualcosa, davanti a loro, li inquadra o li vede: le loro “emozioni”, la loro rabbia, è veicolata in gesti lenti, costruiti, fabbricati per sembrare rabbia, per rappresentare rabbia, e si vede che la cosa è fatta per finta
    È evidente che Il signore delle formiche è un qualcosa di agito davanti a noi appunto *per finta*
  • è ripreso con una macchina che denota con molta prepotenza la sua presenza: si muove inquadrando specchi che non la riflettono, in mezzo a porte dalle quali passa pesante, muovendosi lenta, senza dare l’apparenza del movimento…
    ma più che altro è una macchina che mostra quella recitazione palese, quel Teatro Nō delle emozioni rappresentate, spesso rimanendo fissa e ferma davanti agli attori, agli agenti del far finta, senza muoversi, imponendo allo spettatore un unico e immobile sguardo che diventa quasi stancante, insostenibile, o ancora più finto, perché quella immobilità della macchina indica la presenza della macchina, la presenza del cinema, lì a rappresentare, a mimare in simulacro quella realtà passata evocata…

In questo show cinematografico di evocazione, Amelio dimostra che la verità è sì inconoscibile, perché afflitta dalle convenzioni sociali, ma che dalle operazioni come la rappresentazione si ispirano delle riflessioni e delle catarsi adatte a tentare di comprendere quella verità…

L’amore dei protagonisti, cancellato dal bigottissimo dell’Italia perbenista eternamente fascista (nella rappresentazione, Amelio è chiaro nel dichiarare il reato contestato fascista in quanto ideato da Rocco e Mussolini; è chiaro nel dichiarare la chiesa provincialotta dei piccolo-borghesi, come diceva Goliarda Sapienza, la degna erede del dispotismo fascista; è chiaro nel dimostrare quanto l’Italia del “potere”, della giurisprudenza e della politica, non riesca a smarcarsi da tali aporie liberticide fasciste, connaturate nel DNA dell’Italia stessa: che tristezza: e tristezza doppia vederlo in ritardo, dopo l’elezione di Fontana e La Russa alla presidenza delle camere), e il dolore di quella cancellazione, frutto della complessità dell’Italia democristiana, NON possono essere compresi né somatizzati con la semplice diegesi di quanto è accaduto: una diegesi che sfuggirebbe alla riflessione…
occorre far sentire come un macigno la pesantezza della rappresentazione, la crudeltà del far finta e la gravitas dell’immobilità dell’inquadratura, della presenza del cinema, così da far scaturire, in mezzo al mimare la realtà, il sentimento vero, provato dallo spettatore, grazie ai richiami con l’Aida, scaturito proprio dal mimo

un vero, emotivo, che si innesca dalla presenza del falso, della scena, della rappresentazione
come se la distanza tra spettatore e fatto evocato (distanza sancita dall’evidenza della fintezza) fosse necessaria allo sviluppo della riflessione… e con la riflessione, la comprensione, giunge il sentimento vero…
Amelio riesce a realizzare questa autentica catarsi aristotelica e brechtiana…

Ci riesce anche dimostrando anche, in sottotesto, come la distanza sia sì necessaria allo spettatore, ma deleteria per la socialità, che invece implica partecipazione

Gli unici attori a restare fuori dalla polarizzazione tra accademici e dilettanti sono Elio Germano e Sara Serraiocco: il giornalista addetto alla verità della cronaca e sua cugina, popolana limpidamente antifascista…

Germano, soprattutto, sfoggia una naturalezza da quadruplo Oscar alla recitazione: Germano è proprio vero, non partecipa alla rappresentazione di Amelio, e appunto vive il dramma su di sé, tutto intero… [è come Jesus nel Jesus Christ Superstar di Jewison]
Ed è Germano, aristotelicamente, il nostro eroe tragico: nello sconcerto di Germano, una scintilla di autenticità nella rappresentazione, il pubblico poggia ancora di più la sua riflessione data dalla distanza dello spettacolo fintizzato… appunto perché la riflessione, la comprensione e il sentimento vero che produce deve poi essere applicato nella società, nel presente, nella realtà e non solo nel finto del film…

Ecco perché Germano porta la riflessione di Amelio dai contesti tragico-aristotelici drammaturgici alla contingenza, imminente, della vita da vivere, qui e ora, al di là dei mimi…

E infatti è la linea dell’autentico Germano a conquistarci più delle sterili riflessioni teoriche di Braibanti, che non hanno fatto altro che attizzare il bigottismo e produrre infelicità (fantastiche le scene di critica a Braibanti, con Chiara Valerio e Luca Lazzareschi [forse un Sylvano Bussotti, sodale di Braibanti?]: Lazzareschi vuole anche uccidersi! simbolo di una resa a un’Italia insalvabile nel suo fascismo eterno? o simbolo della sterilità delle avanguardie teatrali anni ’60, incapaci di creare società?)…

Germano diventa la cifra del passaggio dalla riflessione (ottenuta con la rappresentazione) all’azione, all’antifascismo, alla lotta, alla consapevolezza…

e a una manifestazione a favore di Lo Cascio, a Piazzale Clodio, a cui attende Germano, appare, fantasmatico, il primissimo piano della Emma Bonino odierna…

La lotta, la consapevolezza, è presente grazie al simulacro del passato: e Germano lotta per tutti e non solo per se stesso (e noi con lui, essendo Germano il nostro eroe tragico)

Un film pesante, non facile, estraneo alle estetiche dell’oggi… e quindi ancora più prezioso per i suoi risvolti retró di teoria di unione tra arte e politica, tra rappresentazione, riflessione e azione…

Pubblicità

4 risposte a "Il signore delle formiche"

Add yours

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.

Blog su WordPress.com.

Su ↑

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: