«La città dei vivi» di Nicola Lagioia

La prima impressione sorprende, poiché, per certi versi, non si tratta di un romanzo…
Lagioia scrive una sorta di “potenziamento emozionale” di quello che è un resoconto dei fatti riguardanti l’omicidio di Luca Varani perpetrato da una coppia di ragazzi nel marzo 2016…

È una sorta di M di Scurati riferito a un fatto di cronaca…

Rispetto a Scurati c’è più riflessione sulla natura del nostro presente, soprattutto sul fronte dell’Etica, con risultati davvero complessi nell’analisi dei concetti di giustizia e colpa

L’antigrafo è evidentemente Delitto e castigo di Dostoevskij, e da Dostoevskij deriva tutto l’impianto, e, perfino, tutto l’intreccio (cioè, in questo caso, il “montaggio” dei diversi episodi cronachistici)…

Rispetto a Dostoevskij, Lagioia è per fortuna meno sacrale…

Uno dei più attenti adattatori di Dostoevskij è stato Robert Bresson (si sa che Pickpocket, del 1959, è Delitto e castigo), e si allineava bene nell’aura “predicatoria” del finale del romanzo russo…

Lagioia, però, alza lo sguardo ben al di là della contingenza teologica, illuminando tutte le implicazioni della complessità della situazione etica, non solo quella fideistica, restituendo un panorama così sfaccettato e frastagliato da rimarcare di più le propaggini maligne invece di quelle benigne
Più che a Bresson, Lagioia finisce per somigliare a William Friedkin: a The Exorcist o a The French Connection

La Roma di Lagioia (la «città dei vivi» del titolo) è raccontata davvero con uno sguardo alla Friedkin degli anni ’70, quello attento ai dettagli del degrado e dei bassifondi, affascinato dagli impulsi soprannaturali nascosti tra le piaghe di un insistito realismo, impulsi che lampeggiano fulminei e improvvisi in un tappeto di scuro naturalismo…
se Friedkin fa sentire il soprannaturale con sovrapposizioni di scene mentali o con abbagli luminosi sui volti dei personaggi strambi (oltre ai film citati, questo è evidente anche in Sorcerer e negli ultimi Bug e Killer Joe), Lagioia lo fa sentire con aforismi densi, e con il dolore che prova nel vedere le contraddizioni delle carte, delle testimonianze e dei riscontri, dove gli eventi non sono mai giusti, mai paralleli, ma sempre disallineati, incongrui, per nulla coincidenti…

Come Friedkin, Lagioia comunica una realtà inconoscibile e insana, patologica e sofferente, e ci confessa con tristezza che quella realtà produce uno strazio filosofico-etico che deturpa completamente il contratto sociale, e a simbolo di quella realtà erge Roma, una città che Lagioia descrive come un buco nero totale: come se Roma fosse la causa più che il semplice ambiente della strage della realtà inconoscibile…

Lo scoprire un efferato omicidio perpetrato nei fumi della droga da due ragazzi di ottima famiglia, in un condominio dove vivono decine di famiglie che non si accorgono di niente, apre un Vaso di Pandora su tutta la città e su tutte le classi sociali che la popolano…

Il classico dualismo politico tra gli assassini ricchi e la vittima povera si intorbida subito con una vittima povera che si prostituisce per racimolare i soldi che alimentano la sua ludopatia, una vittima che mente a tutti i suoi congiunti…
e il dualismo si intorbida con gli assassini ricconi che comprano la droga non con i soldi loro ma con un furto ai danni di un altro, anch’esso benestante…

Sullo sfondo ci sono anche i genitori che, sia ricchi sia poveri, non si accorgono per niente di quello che succede ai figli, e reagiscono al dolore in maniere scomposte e nonostante tutto quasi insufficienti, dato che nessun genitore ammette mai i propri errori…

Negli assassini si evidenziano gineprai psicologici originati proprio dalle famiglie, gineprai che vengono appunto alimentati dal buco nero totale che è Roma…

L’alienazione d’affetto degli assassini si combina anche con la drammatica e oramai eterna discriminazione degli omosessuali, che costringe qualsiasi omosessuale a reprimersi generando ulteriore trauma sfociante in possibile violenza…
Non solo: il problema della normalità dei gay si tramuta in tragedia sociale interclassista, con i poveri che vedono i gay come ricchi privilegiati da odiare proprio perché riversano le loro rabbie di non accettazione sociale manipolando tutti quanti, anche i poveri etero (certi problemi sulla necessità di rappresentarsi sono bene illustrati in Febbre di Jonathan Bazzi: necessità di rappresentarsi che sfocia nel sentirsi come ti rappresentano gli altri, cioè se tutti ti dicono che sei gay e quindi sei merda, tu, per strazio di accettazione, magari diventi merda per ansia di rappresentazione!): una schematizzazione fallace che genera essa stessa discriminazione e spirale del silenzio sul fatto che anche i poveri possono essere gay: e se un povero è gay, in cotante problematiche si troverà anche lui, a subire infelicità che dovrà elaborare: e come?

E la schematizzazione è ovviamente foriera di tranciante dualismo binario del tutto inutile, poiché esistono anche i bisessuali, i fluidi, i trans, e tutto il vasto universo LGBTQI+
quelli non appartenenti ai “classici gay” o ai “classici etero” come si divincolano dal dualismo semplificante?

a complicare le cose, nelle tante polarizzazioni dei disperati italioti (Lagioia commenta bene i tweet di gente beota come Adinolfi o la Meloni), c’è anche il fatto che i poveri così detti etero sono di destra e i ricconi così detti gay sono di sinistra, in uno scenario estraneo ai tradizionali dualismi razzisti tanto cari a destrorsi (coi sinistrorsi che amano i neri e i destrorsi che li odiano: semplicismi: qui si ha a che fare con un delitto tutto cotto e consumato nello stesso gruppo etnico, senza neri, ma con altre minoranze, tra gay, borgatari e miliardari)…

Per Lagioia, il Vaso di Pandora emotivo fa parte del gorgo del buco nero di Roma, incasinatissima metropoli dove tutti i dualismi si creano ogni giorno ma ogni giorno si contraddicono (visto che i dualismi sono solo sciocche schematizzazioni) e “implodono”, in un terreno di corruzione, pigrizia e imperizia che fa da comburente a qualsiasi problema, pronto, in questo milieu, a ingigantirsi immensamente…

La Roma sfatta di quegli anni (2016-2017, che furono di commissariamento del municipio per Mafia Capitale e della incipiente e inesperta giunta Raggi) sembra davvero provocare le peggiori conseguenze delle orripilanti questioni di partenza sui dualismi socio-genderisti: Lagioia sembra dire che nel marasma del caos apocalittico romano, le criticità tra gay ricchi e poveri *producono* perfino prostituzione minorile e pedofilia!

Su ogni cosa dovrebbe agire la giustizia, ma la Lagioia ci dice (come fa Friedkin) che quella è roba di concetto, che non ha nulla a che vedere con la realtà: nella realtà ci sono le burocrazie, le scartoffie, e, soprattutto, nella realtà ci sono un mucchio di persone che non riescono a raccapezzarsi del dolore o perfino del male

Lagioia si allinea a tanti film di Friedkin nel dirci che le routine, le povertà di ognuno, la necessità della vita che continua in un tran tran compulsivo, sopravanzano sia la conoscenza delle cose, sia l’empatia, sia la semplice constatazione…

Quando si apre, per caso e per un attimo, il Vado di Pandora del buco nero originato dai vari problemi familiari, di gender, di discriminazione, la gente non sa come fare, e non sanno come fare neanche quelli che dovrebbero lavorare su tutto questo, i magistrati, i carabinieri…

Il Vaso scoppia, il buco nero agguanta qualcuno, e tutti sono attoniti, e non riescono a fare niente, perché il buco nero non si arresta dopo che il Vaso è scoppiato, anzi, si scopre ben presto che il Vaso è più un vulcano che un “vaso”: e quindi di coperchi ne ha tanti, tante bocche di vulcano che possono eruttare quando vogliono… e una volta che hanno eruttato si raccatta i cocci ma le bocche del vulcano non si possono chiudere… non si può né rimediare né intervenire per migliorare…

perciò la giustizia diventa un qualcosa di speculativo che non serve a niente, e anzi, speculare su di essa genera altra tensione allucinatoria…

perché riflettere sulla giustizia implica riflettere su se stessi, riflettere sul fatto che sul vulcano e sul buco nero ci si cammina tutti quanti, tutti quanti si ha un Vaso di Pandora dentro che potrebbe scoperchiarsi ed eruttare da un momento all’altro, perché anche noi tutti si lotta con nostre piccole discriminazioni, con tragedie della prevaricazione, con traumi familiari o edipici…
e se si erutta, noi saremmo disposti a dire che è colpa nostra?

oppure diremmo che la colpa è del buco nero, dei traumi, di qualcun altro che ci ha trattato male, che è colpa della società?

pensare a questo origina la tragedia di un mondo che si sente non colpevole, perché azionato da istanze socio-sessuali sempre più grandi di noi perché appartenenti ai numeri grossi, alla folla, alla moltitudine… una moltitudine che il singolo non può né amministrare né contemplare…

ma se le cose accadono per moltitudine, allora per forza non c’è colpa!

e che mondo è un mondo senza colpa?

un mondo che si presenta come determinista assoluto: in cui le cose accadono solo per conseguenza di una causa lontana, senza che nessuno “agisca” davvero… un mondo che va avanti per inerzia di un’entropia del passato (quell'”entropia del passato” che appunto generò, attimi dopo il Big Bang, il nostro scorrere apparente del tempo: se ne parlava mesi fa con Keep Calm and Drink Coffee)…

e un mondo simile come può generare giustizia?

se ognuno è in balia di un fiume di problemi sociali più grossi di lui, c’è davvero chi è colpevole?

Lagioia dimostra come un mondo senza giustizia, perché privo di colpe, produca effettivamente una colpa che è esagerata, che è punizione

Una colpa che è punitiva, con carceri e reprimende, con repressione atroce, con mortificazione esagerata ed esagitata dei responsabili… messi alla gogna e poi nascosti alla vista, chiusi in un carcere, appunto perché la gente, tutta potenziale colpevole senza colpa, non vuole vedere colui che ha eruttato (magari solo per caso), e allora lo rimuove, lo nasconde sotto il tappeto di una prigione, sperando che lì non esista più… o se esiste, sperando che lì soffra a vita, lì davvero *colpevole* di aver dimostrato che nel mondo privo di colpe, colpevoli siamo invece, potenzialmente, tutti…

e carcere, confino, bastone (ricordiamoci «vent’anni e più di tirannia fascista») e gogne, sono tutte punizioni che, ancora, contribuiscono al livore, ai lutti socio-sessuali, perché ancora discriminano, prevaricano, soffocano…

e non se ne esce…

La città dei vivi non funziona granché nel suo voler essere un poema sull’amore/odio per Roma, benché le descrizioni alla Friedkin della città siano splendide…

…funziona a mille come trattato sulla marcescenza purulenta del presente, un trattato che arriva all’interiorità dei sentimenti partendo dalla caducità del reale… un trattato che, parlando di un dramma omicida particolare, giunge a constatazioni metafisiche del tutto universali, che riguardano tutti (anche lo stesso Lagioia, insieme reporter e tragicissimo personaggio del trattato)…

è una sorta di semifiction, se non proprio una docufiction, che trabocca nel saggistico, senza però mai trasformarsi davvero in saggio, ma mantenendo davvero bene l’equilibrio funambolico tra cronaca dei fatti e narrazione dei fatti, in una vicenda che si genera dai fatti e che riesce a incorporare i fatti quasi come elementi diegetici invece che ispirativi!

è una magia che non sempre riesce a Lagioia, e che potrebbe scontentare sia gli amanti dei saggi sia quelli dei romanzi…

ma chi ha presente Dostoevskij (anche se non lo ama, come il sottoscritto, che è profondamente tolstoiano, anche se ha adorato le Notti bianche) troverà nella Città dei vivi quasi un Dostoevskij adattato al presente!
e sul solco di Dostoevskij tanti ameranno fantasticamente quanto il saggistico e il narrativo si supportino a vicenda, con uno che calmiera le troppe riflessioni (che comunque sono tantissime, e del tutto extradiegetiche) dell’altro, e con l’altro che impreziosisce di speculazioni le oggettività dell’uno…

La lettura non è facile, ed è un libro tutt’altro che corto…

e invischiarsi nel torbido dei problemi e scoprire che i problemi di tutti i giorni potrebbero davvero sfociare in morti ammazzati (e pure da noi stessi) non è piacevole, anzi, fa subire una bella tensione (la parte centrale è parecchio pressante in quanto a metafisico dolore per la contemplazione della quotidianità del male più che della sua banalità)…

ma riflettere su tutto questo è davvero necessario

3 risposte a "«La città dei vivi» di Nicola Lagioia"

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  1. GRAZIE GRAZIE GRAZIE per il rimando: è molto bello che i discorsi possano continuare spostandosi nel tempo, nello spazio e soprattutto nelle tematiche che poi però si ricongiungono, o forse meglio dire si allargano, come cerchi concentrici.
    Immagino che questa sia davvero una lettura di quelle che lasciano una inquietudine latente che presumo sia destinata a rimanere depositata e a pesare.
    Personalmente sento lo stomaco stretto soltanto leggendo la recensione, dunque non oso immaginare cosa sia calarsi in quel buco nero del quale hai reso idea in maniera talmente chiara da risultare tangibile.

  2. Ho letto due libri di Nicola Lagioia: Occidente per principianti e Riportando tutto a casa. A parte i bellissimi titoli, non mi sono piaciuti, perciò non ho più letto nulla di lui. Preferisco Dostoevskij

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