Ex aequo con l’Eroe di Asghar Farhadi, ha vinto il gran premio della giuria a Cannes nel 2021…
È forse il secondo o il terzo film di un regista nato nel 1979… un film europeo, di innesco finlandese, fatto con soldi tedeschi e russi, distribuito da una azienda russa, e ambientato in Russia, sul treno Mosca-Murmansk (da San Pietroburgo in poi il treno viaggia sulla Ferrovia Kirov) e nella stessa Murmansk, nel pezzo di Russia che affianca la Finlandia, a nord perfino della Carelia, nella Penisola di Kóla, un oblast’ russo (quello di Murmansk, pressoché coincidente con l’area della penisola Kóla) adiacente alla Lapponia finlandese: il suffisso “murm-” della città forse sta a indicare la vicinanza con la Norvegia, con un nomignolo derivato dall’antico slavo, perché in effetti, a “corona” della Lapponia, si staglia anche il lembo di confine norvegese, all’estremo nord (non ci sono connotazioni toponomastiche di vicinanza con la Finlandia perché la Finlandia non c’era a livello amministrativo, e anche perché, per tanti anni, è stata Russia quasi a tutti gli effetti)…
–
L’ho sentito nel doppiaggio di Cristina Boraschi (per anni fu la voce quasi “ufficiale” di Julia Roberts), agito da Alessia Amendola (nei titoli accreditata Lessia Amendola: chissà se è un errore o un vero nomignolo: si sa tutti che è la primogenita di Claudio Amendola e Marina Grande, e quindi nipote di Ferruccio Amendola e Rita Savagnone) e Andrea Oldani a fare i protagonisti Seidi Haarla e Jurij Borisov…
Boraschi doppia tutto il russo in modo indifferenziato (il moscovita come il dialetto della Carelia come la parlata di Murmansk), ma per fortuna lascia il finlandese sottotitolato…
che la protagonista sia di madrelingua finlandese in un contesto di multivernacolo russo, dal doppiaggio viene perduto: si intravedono, in video, momenti in cui i russi capiscono male la parlata della protagonista: momenti che a noi ascoltatori italiani ci estraniano, poiché noi sentiamo parlare tutti quanti nel più perfetto italiano (a un certo punto arriva anche un altro finlandese a parlare uno stentoreo russo del tutto non incluso nel doppiaggio)… inoltre, Boraschi traduce in “muratore” la professione del protagonista che invece è chiaramente un “minatore”…
A parte questi dettagli tecnici che affliggono qualsiasi traduzione, la freschezza e l’immediatezza che Boraschi è riuscita a ispirare nei doppiattori è eccellente…
–
Scompartimento n. 6 è così cristallinamente archetipico, inconscio e immediato, da volare via tutto d’un fiato: sembra anche durare meno rispetto ai 107 minuti effettivi…
è una storiella di formazione classica, sicura, e platealmente prevedibile: è di quei film buoni, quasi ricostituenti, di quelli che ricostruiscono l’ottimismo e i buoni sentimenti…
è una vera forma quasi fiabesca: in senso di funzione letteraria e non di genere: non è una fiaba per un cavolo, chiariamoci, ma sottintende alla stessa funzione di costruzione inconscia di una psiche sana, che nel finale sa di essere sana, ripacificata, centrata, guarita e pronta ad affrontare tutto il mondo!
Una costruzione fatta con la solita e risaputa catabasi in un mondo fluido-infernale che fa tanta paura, che va affrontato, naturalmente in solitudine, e l’affrontarlo comporta il recidere i rapporti con tutto il mondo vissuto fino ad allora, che sembrava tanto rassicurante e felice…
durante la catabasi, è ovvio, si scopre piano piano come adattarsi e sopportare il mondo fluido-infernale, vi si trovano modalità di azione, strumenti di abitudine, e configurazioni di relazione interpersonale che via via si impara ad amministrare, riconoscere, accettare e reciprocamente elargire…
e, ovviamente, una volta compreso il mondo fluido-infernale, in esso si riesce a trovare un “caotico ordine”, che quell’inferno ci fa comprendere, e, alla fine, perfino apprezzare, perché, nel contempo, il comprendere l’inferno significa smascherare il mondo passato rassicurante come ipocrita, fasullo, come odiosa crinolina della bambagia dell’infanzia instupidita…
L’inferno da affrontare è la vita adulta, la crescita, e il benessere mentale, da raggiungere a tutti i costi, attraverso tutte le brutture dell’inferno da “catalogare” e “vivere” come esperienza capace di migliorarci, fino ad arrivare al “traguardo” della vita normale: una vita effettiva, per niente bambagiosa e per niente rassicurante, ma una vita sdrucita e sgangherata, che, però, grazie all’esperienza dell’inferno, possiamo vivere con felicità e consapevolezza!
–
Il lavoro del regista, Juho Kuosmanen, e della sua troupe (Jani-Petteri Passi alla fotografia, Jussi Rautaniemi al montaggio) è di quei lavori di impasse cinematografico che manda in brodo di giuggiole i festival europei…
la macchina è catatonicamente oggettiva nell’insinuarsi documentaristicamente (e quasi sempre a mano) dietro e a fianco ai/dei personaggi per rendicontare le loro azioni apparentemente senza intervento…
ma facendo così la macchina, invece che “invisibile”, si rende quasi sfacciatamente presente, perfino ostenta la sua presenza (mi spiego: in qualsiasi documentario è evidente la presenza di qualcuno a riprendere)… ed è ostentata anche nella resa fotografica “oleosa”, fatta di colori sgualciti (spesso verdognoli), collosi quasi come tempere che colano, perfetti per rendere il freddo e il buio invernale sempiterno del nord del mondo, tutte cose ideali per illustrare la catabasi…
come tutte le macchine care ai festival, da oggettiva fa presto a giocare con i ricordi e con le aspettative metacinematografiche…
la protagonista ha una videocamera con dentro i ricordi del suo passato bambagioso d’infanzia, che ovviamente dovrà “superare”… e il simbolo fantastico della maturazione mentale è la vista dei petroglifi preistorici della penisola di Kóla: genialmente, Kuosmanen lascia non dichiarati quali, tra i tanti glifi della vasta area, si vogliono vedere: ce ne sono tanti sulle coste del Kanózero, del lago Onega [la Wikipedia italiana vuole si legga Ònega, ma quella russa insiste su Onégo, che sarebbe una sorta di »anjéga«, a meno che non intervengano regionalismi], e di diverse porzioni del Mar Bianco, intorno a tutta la penisola di Kóla: che la protagonista, da Murmansk, voglia vedere quelli di Kanózero e Onega è abbastanza assurdo, e quindi è più facile voglia vedere quelli intorno alla penisola di Kóla, ma nel film non si vede dove la protagonista va: la vista dei petroglifi è quindi solo un viaggio mentale, inconscio, immerso nei simboli, anch’esso, di catabasi, tra neve, tempeste, acque mentali (quelle che vediamo anche in Malick o in «Pincher» Martin di Golding), ostacoli da superare e vari “guardiani della soglia” da affrontare: e la scelta del petroglifo è altresì geniale perché il petroglifo è il cinema, le immagini primordiali disegnate per conoscere il mondo e attraverso esso conoscersi: il petroglifo, il cinema, è *simbolo* della vicenda stessa del film: un vero e proprio simulacro, in piccolo, di tutta l’esperienza raccontata…
Nei film americani, l’arrivo del cinema all’interno della sinossi, è spesso sottolineato da riprese spiattellate o da ulteriori simboli (le uova, per esempio, di Ready Player One e di The Shape of Water; o il mostro del Loch Ness di John Henderson con Ted Danson, del 1996, che ha un andamento quasi simile a questo di Scompartimento n. 6), molto risaputi e ovvi: Kuosmanen attua modi diversi, di sottrazione dell’immagine (la macchina non riesce a vedere niente), e di enunciazione del semplice atto del vedere: quando i protagonisti arrivano ai presunti petroglifi mentali, la macchina inquadra loro che guardano invece dei glifi, esemplificando benissimo che il fatto del conoscersi attraverso le immagini simboliche è *proprio* dei protagonisti, e che i glifi sono mero agente, tanto agente accidentale che potrebbe non esserci, e difatti non c’è: quello che conta è il *conoscersi*, sì attraverso le immagini inconsce, ma quelle immagini sono secondarie rispetto all’atto del conoscersi: e Kuosmanen inquadra quell’atto invece che il suo incidentale agente!
un finale simile, è quello, più metafisico, del Sunchaser, l’ultimo film di Michael Cimino (1996)…
–
Scompartimento n. 6 è una cosettina festivaliera che poteva tranquillamente finire nelle configurazioni da film natalizio, che Kuosmanen però innalza a ottimo logos sull’importanza del cinema/immagine nel delineare i sentimenti, riuscendo anche a incastonare filmicamente funzioni letterarie di catabasi supersonicamente ben messe…
un film davvero piacevole
Rispondi