«Little Buddha» di Bernardo Bertolucci, 1993

Probabilmente è uno dei capolavori di Bertolucci…

La filosofia buddista della reincarnazione, con il corollario dell’impermanenza, la provvisorietà effimera connaturata all’esistenza dell’uomo e del mondo intero (una sorta di entropia di cambiamento e di trasformazione fino a uno scomparire ciclico, in accordo con il primo principio della termodinamica), è narrata da Bertolucci senza distrazioni sessuali (quelle che affliggono gran parte dei suoi film) e con immagini (di Storaro) di un lusso stratosferico, che però mantengono sempre una certa natura artigianale

Gli effetti speciali di fiori di loto che spuntano dal suolo, o di case oniriche che si materializzano come nuvole di fumetto, di alberi che si piegano e di bambini che appena nati parlano, sono tutti costruiti in modo da stupire ma anche con la voglia di rimanere ancorati a un immaginario infantile: effetti speciali che sono quasi come illustrazioni di uno storybook, letto dai bambini…

E infatti sono i bambini (prima il solo Jesse poi anche gli altri due ragazzi candidati) che vedono la storia di Siddharta, in favolosi impasti visivi: da kolossal, quasi da sandalone, nella prima parte, poi, via via, sempre più realistiche, effettive, vere… la ciotola che galleggia controcorrente è quasi naturalistica, stupisce quasi più per *mancanza* di magniloquenza che per ostentazione di effetto… quella ciotola è connaturata con il resto dell’immagine, parte integrante, quasi per nulla “effetto” (un effetto, quindi, del tutto indistinguibile dal resto della visione)…

Quando la storia di Siddharta giunge al culmine, con la lotta contro Mara, gli effetti si configurano splendidamente come immaginazione dei bambini, che proprio si nascondono all’interno della lotta, come se la vivessero loro stessi, sottolineando al massimo che se la immaginano loro stessi, nel gioco, il gioco del ricordo che è insieme storia (da raccontare), Storia (da ricordare), mito religioso (da pensare), e anche cinema e, quindi, vita

Andando al di là di Mara, Siddharta raggiunge il Nirvana che è l’esistenza paradisiaca, l’esistenza consapevole, consapevole tra ciò che è vero e ciò che non lo è (una conoscenza che hanno anche i bambini che assistono alla lotta contro Mara ben sapendo che essa è Storia, storia e pensiero), e quell’esistenza è raggiunta proprio quando i bambini crescono, si rendono conto della vita che passa, si rendono conto della necessità della morte e della sua natura di trasformazione di ogni cosa…

Il crescere, in Little Buddha, è un crescere di cinema e nel cinema: quella lotta contro Mara, agita e immaginata dai ragazzi, quella storia di metafora da narrare e sognare, diventa il mattone dell’esistenza effettiva, il fondamento di una vita piena e sana…

Una vita piena e sana, di cinema metaforico di consapevolezza, che include non solo la conoscenza dell’impermanenza (sottolineata dalla spettacolare scena dopo i titoli finali) ma anche la possibilità di convivere, in un tuttuno di espressioni…
Lama Dorje è reincarnato in tutti e tre i ragazzini (l’americano, la nepalese e l’indiano): essi sono tutti e tre parti del tutto che fu Lama Dorje: l’americano è la mente di Dorje, la nepalese (che si presenta come una insopportabile e già indottrinata «so tutto io») è la parola di Dorje, l’indiano è il corpo di Dorje…
Mente, corpo e parola: la triade orientale parallela all’Es, Io e SuperIo occidentali, scovati millenni dopo da Freud (e come non citare Massimo Mila, nella sua introduzione al Siddharta di Hermann Hesse, 1922, da lui tradotto per Frassinelli nel 1945, ancora oggi l’unica edizione italiana autorizzata [ristampata da Adelphi dal 1975]: Mila ribadisce che cultura tedesco-mitteleuropea e cultura orientale sono, metafisicamente, sorelle, e lo si vede da molti punti, dall’idea di Streben, comune a entrambe, fino alle curiosissime immanenze folkloriche similari [vedi l’idea della volpe come mutaforma, spesso anche malefica ma non solo, presente sia in Giappone sia nei massicci alpini austriaci e boemi/moravi])…
Mente, corpo e parola che possono esistere anche in tante parti: possono esserci anche se non ci sono… E questo loro essere, diviso e insieme unico (come è la nostra stessa mente, secondo Freud), sancisce che unito può essere anche il mondo, diviso in nazioni ed etnie ma anche unico…
E questo loro esistere senza esserci, questa loro unità nelle diverse parti, è una colossale metafora di cinema, che è il fantasmatico tutto che formano diverse parti, cioè i fotogrammi “staccati”…

Mente, corpo e parola sono uniti nella macchina da presa di Bertolucci, come non mai leggera e foriera della massima immaginazione, fluttuante e felice di immedesimarsi in questi ragazzi che sognano, immaginano e capiscono… una macchina da presa importante nella sua leggerezza, perché esprime, col cinema, quello che il cinema dovrebbe forse essere più spesso: compartecipante, con le storie e i miti di cui è “parte”, unito e pur a sé stante, alla costruzione dell’essere umano consapevole, civile, felice…

Indescrivibile la musica di Ryuichi Sakamoto…

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