«Prince of Darkness» di John Carpenter, 1987

Non potrò certamente dire di più di quanto ha detto My Mad Dreams, andando più in modo random di concetti e concentrandomi solo un attimo sulle valenze metacinematografiche di questo film che è uno dei massimi di Carpenter, con quello che, con ogni probabilità, è il finale più tranciante dell’intera Storia del Cinema… [e ricordo en passant i miei anni da studente “carpenteriano” sfociati in questa relazione d’esame, molto scolastica, probabilmente ricca di refusi ed errori e incentrata su un impossibile confronto tra l’Halloween di Carpenter e quello di Rob Zombie]

Carpenter ha sempre detto di non propendere mai per sovrastrutture intellettualoidi interpretanti il proprio lavoro… Diceva sempre che dei film di fantascienza prediligeva quelli di pura attrazione mostrativa (per saccheggiare il linguaggio di Gaudreault in modo improprio, onde designare quei film in cui l’effetto speciale è la maggiore qualità d’interesse), quelli con il «Lobster Man from Mars» mostrato per il puro gusto di mostrare il «Lobster Man from Mars», invece di quelli che usano il «Lobster Man from Mars» per metaforizzare altro…

Naturalmente, però, di metafore, Carpenter ne ha fatte a bizzeffe, nascondendole però sempre in un tessuto del tutto diegetico, cosa che spiega il suo non sopportare discorsi metaforici più ampi (tipo quelli di Spielberg, Lucas o Altman) e il suo ancorarsi sempre a un amalgama di racconto non “scoperto”, che molto spesso faceva storcere il naso a certa critica americana…

Nel caso di Prince of Darkness, per esempio, la “scoperta” della metafora, il disvelare che è tutto un film fatto apposta per suscitare riflessioni, non avviene granché: quel disvelare lo si nasconde nel finale “non detto”, e fino ad allora la semplice trametta di MacGuffin (che ci sia il diavolo e che risieda nell’antimateria al di là dello specchio) non è mai data per finta
Questo lascia ai margini qualsiasi metafora, qualsiasi ipertesto, qualsiasi interpretazione
Margini che c’è da rintracciare, scovare, indagare col lanternino in un film che quei margini di metafora te li nasconde, non te li vuole far trovare, nascosti nei meandri di senso tra i frame, nelle piaghe dei moltissimi “non detti” della sceneggiatura (la prima sceneggiatura propriamente di Carpenter, firmata con lo pseudonimo Martin Quatermass, dopo 3 film di fila basati su soggetti altrui e/o lavorati con altri [4 se consideriamo che la sceneggiatura di The Thing è formalmente firmata da Bill Lancaster])…

Ma i margini di metafora li “acchiappiamo” in diversi fatti

In primis nella maniacale costruzione del frame (è il primo film di Carpenter con Gary Kibbe, morto pochi giorni fa, con cui si trova talmente bene da girarci tutti gli altri film successivi in cui abbia avuto controllo, esclusi quindi i televisivi, il tardo The Ward, e Memoirs of an Invisible Man [vedi Sam Simon])…

Quelli di Prince of Darkness sono frame centrati, quasi alla Kubrick, pensati nei minimi dettagli, ed elaborati al massimo della precisione…

Ecco alcuni esempi:

1 – il famoso cambio di fuoco sulla luna (evocato anche nelle Musiche ispirate alla luna)… il cambio di fuoco, oltre tutto, è una delle tessere più usate da Carpenter (cfr., a titolo di esempio, quello sull’accétta nella Main Street di Hobb’s End in In the Mouth of Madness, 1994; o, nello stesso film, quello che manifesta il segnale stradale di Welcome in Hobb’s End, “visto” dai finestrini aperti dell’automobile di Trent), e centrale in altri momenti di Prince of Darkness (Lisa si accorge che il diavolone sta uscendo dallo specchio con un cambio di fuoco simile)…
Il cambio di fuoco sorprende perché suggerisce che ciò che si vede sfocato costituisce esso stesso verità: una verità nascosta proprio in quello che si vede male e che ci si disvela con sorpresa! [su queste tematiche vedi anche Mug]
Il cambio di fuoco ti dice: «vedi? tu vedevi e pensavi di capire e conoscere in un modo ma invece ti sei affezionato a un inganno, dietro al quale c’è un’altra verità

2 – l’arrivo di Pleasence e Wong alla chiesa, in meraviglioso grandangolo di panaglide millimetrico: tutto il frame è usato nel più estraniante dei modi

sembra qualcuno poggiato sulla pancia come un cecchino impegnato a guardare quel che succede [in Halloween vediamo per la prima volta la Haddonfield del ’78 con una inquadratura simile: la panaglide fu messa a punto da Dean Cundey e Ray Stella apposta per quell’immagine di Halloween]…

e finché siamo all’aperto ok, ma la cosa è molto più ansiogena quando siamo all’interno!

La panaglide suggerisce che ogni cosa sia vista da qualcuno che spia acquattato a terra…

3 — il colloquio dei ragazzi, ripreso forse con un teleobiettivo, come se fossero spiati da qualcuno: sono a fuoco solo loro, come ripresi da qualcuno con un binocolo, o, appunto, con un teleobiettivo!…

Alla fine del colloquio, per altro, Lisa è turbatissima dalle battute para-sessiste di Brian, e la macchina ci si avvicina con stacchi proprio enormi quasi per nulla diegetici, quasi più teorici, di traumatica separazione tra oggettivo e soggettivo: chi spiava ci fa vedere quello che i ragazzo provano perfino avvicinandosi troppo!

Anche molti shots sulla chiesa (specie quelli di arrivo dei personaggi) sembrano sguardi di qualcuno che spia (vedi anche quelli che illustrano i ragazzi che scaricano l’attrezzatura sul retro), e, casualmente, alcune volte somigliano molto a quelle della trasmissione sognata, che sono sì agiti da una macchina a mano ma si originano quasi dagli stessi punti di vista…

Intorno alla chiesa ci sono anche numerosi movimenti di macchina rettilinei e laterali in cui la macchina sembra uscire fuori da punti “interni” alla chiesa, come se venisse fuori da nascondigli nel cortile della chiesa, tipo da dietro a un albero!

La macchina sembra essa stessa appartenere alla chiesa…

4 — il piegare lo spazio e la scenografia al fine di costruire lo shot
quasi alla metà precisa del film (intorno al minuto 53 dei 101 minuti totali standard [dipende naturalmente dalla copia a disposizione] di durata) si vede questo:

splendido fondale (lo scenografo è Dan Lomino, forse lo scenografo principale di Carpenter [5 film], anche se affiancato da gente come John J. Lloyd, Joe Alves [amico e mentore di Lomino] e Lawrence G. Paull [tutti con 2 film, e occhio che nei due da lui lavorati, Alves è stato anche aiuto-regista di Carpenter]: per gli scenografi, Carpenter attinge molto dai professionisti usati anche da Spielberg [Alves ha scenografato 4 film di Spielberg ed è stato aiuto-regista anche di Spielberg, e Paull, anche lui morto da poco, è stato assunto molte volte da Spielberg per i film di Zemeckis]) dietro cui si nasconde un intento antirealistico e una natura fittizia dell’esistenza, dato che la luna, protagonista del film (vedi anche i fuori fuoco che la riguardano), occupa sempre un posto diverso nel cielo, alternativamente, e nello stesso giorno, piena e a spicchio, come nel sintagma sole/luna kubrickiano che manda ai matti le comparse e che ritorna innumerevoli volte, questo qua:

La luna, forse, partecipa al senso di condanna già pronunciata nel film: una luna sempre presente, guardinga, “lunatica” e forse anche minacciosa, forse sodale con gli altri elementi luciferini che appestano l’esistenza del film, tipo i vermi, le formiche ecc. fin dall’inizio…

L’appestamento suggerisce che tutto sia già “condannato”: la presenza maligna soverchiante ogni aspetto del vivere è effettiva già prima che la vicenda si inneschi…

Le formiche sono già dappertutto, anche sulla TV del protagonista, ben prima che egli si approcci all’esperimento e cominci ad avere i sogni sincronizzati…
E in TV (quella TV che è attrice attiva nel vivere quotidiano in diversi esempi della New Hollywood, sia in Carpenter sia in Spielberg sia in David Lynch sia in Dick Donner sia in Terry Gilliam sia in Joe Dante: in Poltergeist è veicolo di spettri; in They Live è strumento di comunicazione ufficiale da “scassinare” e “dirottare” in senso rivoluzionario; in Halloween è materia di produzione del senso con suggerimenti sulla presenza di mostri e alieni colti solo dai bambini; in Starman, l’alieno proietta i suoi sentimenti nella visione in TV di From Here to Eternity; in Twin Peaks e Blue Velvet le telenovelas e i noir anni ’40 della TV raddoppiano catarticamente le azioni dei protagonisti; in Twelve Monkeys si vedono in TV Monkey Business e il cartoon sul Time Tunnel; in Joe Dante i cartoon imperano e irrompono nella realtà forse tramutata essa stessa in show televisivo, come si denuncia, in realismo, anche in The Second Civil War; in Conspiracy Theory di Dick Donner la finzione della TV è al centro dell’immaginazione di Mel Gibson e in Scrooged l’assurdità della produzione televisiva è il perno della vicenda), il diavolo campeggia nei cartoni animati di Tom & Jerry evidentemente già infestati

La scenografia stessa allude a questo infestamento pre-esistente anche in uno scherzo: una lapide esterna alla chiesa si chiama Godard, un bel gioco meta-cinematografico (ricordiamo che in Close Encounters di Spielberg, film su cui ci sarà da tornare, è presente in carne e ossa Truffaut)…

4a — La luna di fondale anticipa la natura di set che la mucillagine verde concretizza…

La mucillagine verde campeggia al centro di una struttura già di per sé teatrale (la chiesa, vedi Regia regia), una chiesa-istituzione a cui, nei dialoghi, ci si riferisce sempre come ingannevole, bugiarda, agente di una sciarada fittizia, di un inganno perpetrato per distrarre l’umanità dalle questioni più importanti…

Un inganno della mucillagine verde però connaturato alla natura stessa, come ci suggerisce la meccanica quantistica spiegata da Victor Wong in classe (una classe quasi identica a quella in cui a Laurie, in Halloween, viene insegnata la valenza filosofica del destino che presto la travolgerà nella personificazione della Shape, del Boogeyman): una meccanica quantistica che sancisce per scienza che tutto quanto è fantasmatico e assurdo…

Nell’ottica della meccanica quantistica tutto quello che *non è* fantasmatico (la linearità, la consequenzialità, la freccia irreversibile del tempo ecc. ecc.: in una parola «la realtà stessa» come la percepiamo) è una superficie ingannante che preclude la visione effettiva di ciò che è [e questo è il significato del disvelamento dei cambi di fuoco!]…

E, ovvio, e già evidente da Big Trouble in Little China (vedi ancora Sam Simon), film dove Lo Pan è materializzazione dell’irrazionale nella fluttuazione elettromagnetica del vivere che si palesa con fasci di luce proiettati (uscenti da occhi e bocca: una sorta di inverso della mucillagine che invece entra nel corpo della “marchiata” da occhi e bocca), quella realtà ingannante è il cinema (la luce proiettata)…

La chiesa con il cilindro verde, già teatrale, quasi subito si tramuta in set, un set perfino simile (e rieccoci) a quello di Close Encounters, con riflettori, macchinari e attrezzi…
E Close Encounters è un film non così apprezzato da Carpenter: l’idea che Carpenter “concretizzi” cose che Spielberg, secondo Carpenter, lascia fin troppo all’astruso è tutta da indagare, vedendo anche il mistico e poco incisivo E.T. rispetto al ben più piazzato Starman (vedi la mia opinione in proposito)…

Il set per la mucillagine verde in Prince of Darkness è però veicolo di un cinema non costituito dalla consolazione della pace cosmica, o un cinema di chosen one diegetico che in quel cinema si “immerge” (come Dreyfuss in Close Encounters)… quello di Prince of Darkness è un cinema forse più alla Belloq di Raiders of the Lost Ark, e molto più ricco di inconscio, di irrazionale
Non per niente il cinema di Prince of Darkness lavora con il liquido (acqua = inconscio), che lascia attoniti tutti e che si impossessa della gente e forse è già stato da sempre, in un inconscio di nuovo preesistente come tutti gli indizi detti ci fanno pensare…

Gli “infetti” da quel cinema, per altro, ben presto, metaforizzano in catarsi una certa idea proprio di “umanità”:
gli infetti sono gravidi (con tanto di pancione, come le mamme normali), e sembrano, spesso, soffrire atrocemente (là dove i mostrilli di In the Mouth of Madness sembrano perfino voluttuosi di piacere), come gli esseri umani…

Gli “infetti” sono come gli esseri umani anche nel partecipare alla finzione all’inganno dell’esistenza quantistica… e difatti sono complici perfetti del cinema diabolico
Non solo perché picchiano e dànno botte serie nella semplice trama, ma anche perché, in metafora, condannano alla non azione che sfocia solo e soltanto in un inerte *atto del guardare*, che è quasi tortura (una tematica che si trova, per esempio, anche in Leo the Last di Boorman, 1970)…

Sono complici del cinema diabolico perché agenti dell’inganno
E l’inganno che perpetrano è far credere che la chosen one maligna (non certo Richard Dreyfuss in Close Encounters) sia quella “incinta”, mentre invece si scoprirà che agente da chosen one sarà Lisa… e un altro inganno è bloccare Walter nello sgabuzzino, condannandolo soltanto a vedere, procurandogli tristezze indicibili perché alla visione non corrisponde alcuna azione…
per quasi tutta la sua durata, Prince of Darkness è il dramma della *non azione*: la gente parla (di meccanica quantistica, cercando di razionalizzare le aporie che gli avvengono intorno) e fa poco, e quando cerca di fare scopre invece che sta subendo uno schema prefissato, già deciso, in cui non è che agisce ma viene agita (e anche gli infetti sembrano spesso muoversi manovrati come marionette)… Tutta quella non azione era un diversivo ingannante e tarpante le ali della consapevolezza…

Tutti questi inganni sono cinema, sono trama preordinata, sono script dell’esistenza codificata della società (tema che Carpenter svilupperà l’anno dopo in They Live; sull’importanza degli script nell’esistere occidentale vedi La comunicazione generativa di Luca Toschi, Milano, Apogeo/Feltrinelli, 2011), che si palesano proprio quando si guarda davvero, al di là degli inganni… e si guarda, purtroppo, troppo tardi: si “guarda” negli occhiali rivelatori di They Live, e anche Calder, in Prince of Darkness, passa molto del suo tempo a sconcertarsi di se stesso guardando la sua immagine riflessa allo specchio, specchio veicolo del diavolone stesso perché principale strumento di inganno!

Ma l’inganno è la vita: la vita di tutti i giorni, già evidentemente infetta, come i molti indizi visti ci suggeriscono tra le maglie dei frame costruiti del film che stiamo vedendo…

E la vita di tutti i giorni è essa stessa ricca di drammi, di *non azione*, di inganni, di cui si rende conto tardi…

e il finale di Prince of Darkness è uno stillicidio di questa tematica… e Carpenter spesso si affida al finale per compattare, improvvisamente, tanti indizi dei suoi film… una modalità molto “alla Kubrick” (i finali di Kubrick sono tra i più incisivi: vedi la fotografia di Shining, il duello finale di Barry Lyndon, la corsa al cecchino di Full Metal Jacket… e kubrickiana, abbiamo visto, è la gestione del frame di Carpenter… )

Il finale di Prince of Darkness è esso stesso dramma della non azione, in quanto Lisa decide di sacrificarsi per tutti senza alcun appiglio dialogico, e senza quasi nessun appiglio visivo: solo macchina fissa, traumatizzata, oppure antagonista alla sua scelta (visto che la macchina è spiosa e complice della chiesa-diavolo-inganno)…

Una finale che rende Lisa un Gesù (le interpretazioni cristologiche-chiesistiche del film si sprecano nel Castorino di Fabrizio Liberti, che vede il prete nascosto come metafora della Chiesa in crisi chiusa in se stessa), e la identifica come chosen one effettivo, là dove quello della donna “incinta” era un chosen one fittizio, un ennesimo inganno della bestia-cinema
tutti questi sensi sono negati dal testo e dallo sguardo… bisogna suggerli noi, con estrema fatica, rivisione dopo rivisione…
e la cosa fa arrabbiare perché per quel che riguarda il contorno allusivo, la sceneggiatura è fin troppo ampia: s’è detto che stiamo minuti a parlare di meccanica quantistica per suggerire il concetto che tutto è finto e niente è reale, e che tutto è già diabolico, ma quando si arriva al dunque quel suggerito non si palesa, non ti accontenta, ti lascia scioccato del nulla… l’azione c’è e accade, sfuggente e in modo fulmineo, e noi, alla fine, manco ci se ne accorge!

Ma questo è esattamente il discorso fatto da tutto il film: tutto è già diabolico e quindi per forza tutto è inganno, tutto è fatto per distrarci, anche e soprattutto i momenti di granitica non azione…
Tornando a Walter, sono molti i minuti apparentemente inutili di Walter chiuso nella sua stanza, con solo, guarda caso, la vista di quel che avviene come unica entità possibile… e quella vista vede solo cose che, anche se si vedono, non si capiscono!
E anche noi abbiamo fatto come Walter, siamo stati a vedere senza capire per tutto il film, cercando di buttarla in verbale (nelle discussioni di fisica quantistica), di razionalizzare, razionalizzare ciò di cui non capivamo un ‘acca’ e che razionale non era per niente (e questo è proprio il senso della meccanica quantistica, che sancì il fallimento del “pensare lineare”)…

Il finale, come quello del Trovatore di Verdi (numero 15 di Operas II), dal messaggio del tutto identico a quello di Prince of Darkness, ci arriva tragico e noi si casca dal pero disperandosi, e cerchiamo di tornare indietro, a rivedere dettagli, a cercare appigli che ci facciano comprendere, in una comprensione che si cerca “consolatoria”, ma che non troviamo… rimaniamo soli, davanti allo specchio, in crisi di lutto, a non capire cosa siamo, se siamo noi a decidere o se siamo dentro un mondo preordinato (cfr. anche il mondo preordinato della vendetta di Azucena)… e il nostro “passato”, il film che abbiamo visto, oltre a combaciare col nostro futuro (vedi le identità tra ripreso nel film e ripreso nel sogno), è trapuntato da indizi minimi, da rivedere ogni volta e analizzare, dentro i quali, però, scomponendo e scomponendo sempre più (come sezionando o guardando al microscopio), non troviamo che niente: solo macchina fissa, una attrice che si dispera nel decidere di essere la chosen one, e pochi stacchi…
ma quel nulla che si trova è proprio quello che genera tutta la nostra angoscia (anche in Verdi, scomponendo scomponendo, si trova solo l’imperante 3/4, semplici accordoni di do minore, e poche battute vuote di suspence: nient’altro: e in quel nulla c’è lo stupeficio che ci distrugge)

Risentiamo milioni di volte il laconico dialogo d’amore dei ragazzi protagonisti (e il tornare a “rileggere” passi nella speranza di rintracciare un senso che non troviamo, oltre al Trovatore, è comune anche al Neuromancer di William Gibson): lei che non vuole sentirsi dire «ti amo» in ossequio al Gatto di Schrödinger, per paura che se lo si dice si palesi finto (un altro inganno), e poi, prima del sacrificio, lei dice che è proprio quel «non detto» a rappresentare la cosa più importante del mondo!
Ma il risentire quel dialogo non ci consola perché proprio quel dialogo, che sancisce il tutto del niente o anche il niente del tutto, porta proprio al finale di inganno di “avercela fatta” quando invece non ce l’abbiamo fatta un cacchio…

E che non ce la potessimo fare, che il mondo fosse già “condannato”, era già palese fin dall’inizio, fin dai cambi di fuoco, fin dalle formiche sulle TV, fin dalla luna imperante, fin dalle riprese spiose dei teleobiettivi e della panaglide
E tutto ciò che possiamo rivedere per consolarci dal nulla del film si palesa essere la visione di un ennesimo inganno, il film stesso, un tutto che combacia col nulla

Brian, che si scopre imprigionato in un incubo, e che si avvicina allo specchio, ignaro di tutto, di tutto quel che succederà, di tutto quello che è successo, e che si contempla (come Calder) allo specchio, capisce di essere lui stesso inganno di esistenza, che si risolve in un nulla, nel (magnifico) stacco in nero prima di qualsiasi “risoluzione” (un finale da Gatto di Schrödinger: non si può determinare la sua natura, come non si può determinare quella dell’esistenza)… Uno stacco che è nulla (perché non palesa né “risolve” niente) ma è tutto (perché appunto in quel nulla sta il senso)

Un finale scioccante, più dalle parti di De Palma che di Spielberg, che ci dimostra ogni volta lo sconcerto dell’esistenza irrazionale (da accostare, oltre al Trovatore, ai finali di Cronenberg, di Videodrome [dove «Long Live the New Flesh» è motto irrazionalistico simile a «Sei vendicata, o madre» del Trovatore] o Maps to the Stars: e Carpenter ha anche il raddoppio di angoscia di togliere qualsiasi paratesto verbale alle immagini, togliendo quelle parole che spesso sono consolazioni per gli “stupidi” uomini, che nel finale di Prince of Darkness sono sconcertati dal riconoscersi in evidente status preverbale [anche gli infetti del cilindro verde sono preverbali, grugniscono invece di parlare])…

Prince of Darkness è uno dei tanti film, e dei più belli, che denunciano la condizione umana…
un film che denuncia il disastroso film dell’esistenza…

In questo blog c’erano già molte tracce di Prince of Darkness, oltre quelle presenti nei post già linkati…
in Dark Waters, per esempio… o in Spielberg III e in Proletkult

Un post dal tono simile a questo è quello su Breakfast at Tiffany’s

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13 risposte a "«Prince of Darkness» di John Carpenter, 1987"

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    1. Ci fa un cameo Alice Cooper!
      Che aveva anche scritto una canzone, che però, non mi ricordo perché, non fu usata nei titoli finali e si sente solo sullo sfondo nelle cuffie che porta alle orecchie un personaggio…

      1. Ottima cosa!
        Io ho passato gran parte della vita, in passato, ad acquisire mp3 o flac dai CD… cosa che, alla fine, s’è rivelata un po’ inutile visto che oggi sto ritrovando su YouTube anche cose che ritenevo del tutto “perdute nel passato” [vedi la «Gaîté Parisienne» di Rosenthal/Offenbach diretta da Lorin Maazel nel 1980 per la CBS, riversata solo una volta in CD, negli anni ’90 sparita anche dalle discografie più ufficiali, e oggi tutta su YouTube come se nulla fosse!]

        con le VHS non ce l’ho mai fatta :-(

        e naturalmente quando una cosa su YouTube la vorresti non la trovi (il concerto 1 per pianoforte di Čajkovskij, registrato da André Previn, la London Symphony e Horacio Gutierrez per la EMI, nel dicembre 1975 agli Abbey Road di Londra, mai riversato su CD [almeno che io sappia], su YouTube non c’è manco per il ciufolo: trovo solo 16 minuti del primo movimento grazie a un tale che ha registrato dal vinile col microfono del PC!)

  1. Prima di tutto mi fa piacere che tu ci abbia citato. Secondo ammetto che questa tua analisi sulle inquadrature, su ciò che trasmettono e su tutto il discorso che hai fatto sulla luna, sono argomenti interessantissimi e mi compliento con te per la tua bravura nel riuscire a descrivere tutto quanto.

  2. Che goduria questo post! Da leggere e rileggere! Grazie per questo regalo, Nikke!

    (e grazie per gli immeritati link alle mie recensioni!)

      1. Io se si fa metto a disposizione tutto ciò che ho scritto (e ho scritto di più di metà dei suoi film, a occhio!) e sono disposto a scrivere ancora, ma in realtà non sono degno di contribuire: io voglio solo leggere quello che hai da dire! :–)

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