Jim McBride è nato nel 1941 ed è quindi esattamente coetaneo della grande generazione descritta in The Irishman di Scorsese, De Palma, Coppola e dei poco più giovani Lucas e Spielberg (con annessi Huyck, Katz, Matthew Robbins, Lawrence Kasdan, Philip Kaufman, John Landis e tutta ‘sta gente qui)…
Ha frequentato però tutt’altri giri e si è abbonato al cinema a bassissimo costo, sperduto nei meandri dell’industria hollywoodiana, finendo per dirigere, bene o male, solo 4 lungometraggi effettivamente circolati fuori dall’underground prima di dedicarsi (dal 1995 definitivamente) alla TV (sue tre puntate del leggendario Wonder Years con Fred Savage, una puntata di Six Feet Under, e una di Fallen Angels, serial di anthology di Showtime che ebbe una certa fortuna tra il 1993 e il 1995: ci lavorarono anche Steven Soderbergh, Alfonso Cuarón e Peter Bogdanovich)…
Quei 4 lungometraggi sono:
- Breathless (1983), remake di À bout de souffle di Godard…
- The Big Easy (1986)
- Great Balls of Fire (1989)
- Uncovered (1994)
Lungometraggi in cui si apprezza
- il solidissimo montaggio,
- le sontuose prove degli attori (Big Easy e Great Balls of Fire rappresentano le prove più “sincere” di Dennis Quaid [Great Balls of Fire, inoltre, quasi “lancia” Winona Ryder dopo Beetlejuice, Lucas e Heathers], Breathless ha Richard Gere e Valérie Kaprisky nella loro più formidabile prestanza, Uncovered eternizza una Kate Beckinsale giovanissima e forse mai più così convincente),
- l’attenzione alla musica (il rock classico: Breathless vive di Jerry Lee Lewis di cui Great Balls of Fire è un biopic)
- una salutare e prorompente forza sessuale, attizzante, e si potrebbe definire anche “allegra”…
Un sesso “allegro” che nei registi coetanei di McBride forse non si vede quasi mai: in De Palma spesso il sesso si accompagna con una certa patologia, in Kasdan anche (l’unico film “sessuale” di Kasdan è Body Heat, 1981, fatto di femme fatale e di inganni!), in Spielberg è pressoché vietato, in Lucas non ne parliamo…
…una gioia sessuale simile a quella di McBride potremmo forse trovarla in David Lynch (nato nel 1946), o in Jean-Jacques Annaud (del ’43), registi che però, pur non negando le gioie dell’amore fisico, non disdegnano di rappresentarne la componente atroce (vedi Blue Velvet di Lynch o L’amant di Annaud) una componente invece rarissima in McBride… quando quella componente c’è (nella troppa gelosia di Gere in Breathless o nelle implicazioni non proprio legali del rapporto tra Quaid e Ryder in Great Balls of Fire) è subito “assorbita” dalla felice gioia che il sesso, inteso come “buono”, offre ai personaggi…
Un regista che grazie a queste soavità sessuali fa la felicità di qualsiasi adolescente, mostrando le forme di quelle che sono state/i gli/le attori/attrici più belle/i degli anni ’80-’90:
- in Breathless, Valérie Kaprisky e Richard Gere “lampeggiano” per ficaggine robusta e arrembante…
Breathless è dopo Aphrodite (di Robert Fuest, 1982, dichiaratamente soft-core), ma prima della Femme Publique (di Andrzej Żuławski, 1984) e quindi documenta Kaprisky al super-top della forma (e sono anni in cui la “concorrenza”, nella sola Europa [per l’America basta pensare a un solo nome metonimia di tutta una generazione di attrici: Phoebe Cates], per lei è spietata, essendo attive, in quegli anni o in anni limitrofi, anche Nastassja Kinski, Emmanuelle Béart, Maruschka Detmers e Beatrice Dalle)…
Per quel che riguarda Gere, Breathless è certamente dopo i sorprendenti breakthrough di American Gigolo di Paul Schrader (del 1980), e An Officer and a Gentleman (del 1982), ma cementifica di tanto la sua presenza cinematografica, prima di King David (del 1985) e Cotton Club (’84)… - in Big Easy e Great Balls of Fire la tartaruga addominale di Dennis Quaid sembra una schiacciasassi ed è esibita molto di più che nei film più propriamente hollywoodiani in cui appare negli stessi anni (vedi The Right Stuff, Innerspace, DOA, Come See the Paradise)
- in Uncovered una Kate Beckinsale appena scoperta da Branagh in Much Ado About Nothing (dell’anno prima) sfodera tutto il suo lustro prima di essere fagocitata dalle romcom (Serendipity del 2001) e da Underworld (dal 2003), film dal quale non si è più ripresa…
Un regista, quindi, che occupa un posto particolare nel cinema, quello della scoperta nel senso più letterale di “mancanza di abbigliamento”, senza però mai abbandonare il seminato del cinema vero (quello che abbandona Tinto Brass dopo il 1983 [è certo La chiave che determina il Brass “senza trama”, ma io trovo ancora centrati anche Miranda, Capriccio, e Paprika: è da Così fan tutte che non riesco più a distinguere i film di Brass]), né avventurarsi nei terreni dell’ossessione pruriginosa (come abbiamo visto presente nei suoi coetanei), o dell’art pour l’art, terreno quest’ultimo che condanna a un destino di “non circolazione” (vedi, per esempio, Walerian Borowczyk, ancora oggi poco “reperibile” per via dei tanti divieti)… I film di McBride sono ancora feature film, film distribuibili, acquistabili, disponibili e sono film in cui il sesso è gioia pura… film, quindi, assai particolari…
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In Big Easy il sesso è fantasticamente non visto…
Sebbene gli addominali di Quaid ci siano tutti, di Ellen Barkin non si vede niente…
nonostante questo, il sesso è al centro di una scena di immaginario fantasmagorica, forse paragonabile a quella del “risveglio” di An Officer and a Gentleman (con Gere e Debra Winger), che però è più graphic…
Si vede Quaid e Barkin fare petting, e i due sono bravissimi a innescare le fantasie grazie ai volti sfatti e alle espressioni godenti: cosa simile a quanto accade in Fatale di Louis Malle (1992) con la differenza, ancora, che in Malle il sesso è colpa, misfatto, tragedia, mentre in questa scena il sesso è godimento, gioia, e divertimento…
e a parte questa scena, che servì molto a promuoverlo (in italiano lo intitolarono Brivido seducente), The Big Easy ha ben altro da offrire…
McBride è bravissimo, quasi come Lynch o Landis, a passare da un registro all’altro, tra il ridanciano e il drammatico…
il film ha un’atmosfera familiare scanzonata, fatta di un cast ensemble che rende alla perfezione il senso di “gruppo sociale”, di amicizia e di parentela che i personaggi hanno… atmosfera che si trasferisce all’ambiente, la città di New Orleans, apparentemente un’oasi di compagnoneria e di divertimento…
ma quell’atmosfera, senza quasi cambiare nulla né nel visivo né nel letterario, riesce ANCHE a opprimere, dimostrando che la famiglia è basata su mafia e corruzione, e la compagnoneria della città è covo di crimine, droga e delirante follia…
i due “segni”, positivo e negativo, della stessa atmosfera appaiono consustanziali, e la cosa è quasi uno shock per via della mancanza di configurazioni facili di espressionismo (imperanti in altri film ambientati a New Orleans, vedi Angel Heart di Parker [1987] o Cat People di Schrader [1982], o anche le serie The Vampire Diaries [2009-2017] e The Originals [2013-2018]: tutti proponenti una New Orleans immediatamente surreale, gotica e fumettosa, per nulla amichevole), ma è efficacissima per veicolare il messaggio della banalità del male e dell’abitudine al male…
Tutta la trama, concepita in maniera quasi infantile da Daniel Petrie Jr. (McBriade e Jack Baran hanno pesantemente riscritto il suo script ambientato a Chicago), si basa proprio sulla scoperta scioccante che la consustanzialità tra bene e male invece che ibridante e consolatoria, pende tutta dalla parte della consunzione e della “depravazione”…
Il discorso di McBride è che non c’è da giudicare in alcun modo niente, visto che bene e male convivono e fanno parte di uno stesso essere, e quindi non è possibile cadere dal pero e proclamarsi morali e buoni, anzi, nella consustazialità sussiste un dubbio: come si fa ad autederminarsi migliori, magari assumendosi il ruolo di guardie, là dove siamo partecipi del medesimo essere con i ladri?
Come mi comporto io che voglio essere guardia nel vedere che i ladri sono, tecnicamente, la mia stessa famiglia?
Come mi comporto io nel constatare che il mio essere guardia è inconsistente visto che sono “identico” ai ladri?
Si può essere poliziotti mentre siamo mafiosi?
Si può essere giudici quando non riusciamo a vedere quel che accade a noi stessi in un insieme di bene e male consustanziali?
Tutto questo, a livello drammaturgico, è trattato con sorprendente sapienza: non solo la scoperta degli effettivi assassini smaschera con meravigliosa sorpresa i legami malsani della famiglia tanto simpatica, ma lo fa proprio quando i legami d’amore benevoli si intrecciano con più forza… e inoltre, a metà del film sussiste una ben piazzata catarsi omeopatica che vede il protagonista rendersi conto di tutto proprio perché vive sulla sua pelle cosa egli fa subire agli altri…
A livello di showing The Big Easy fila via con leggerezza, velocità (sono solo 96 minuti), con una gestione fantasmagorica del cast (che sembra aver recitato insieme da millenni: sembra una rodata compagnia teatrale: si dice che ci sia stato almeno un mese di prove dei soli attori prima delle riprese) e una sicurezza di découpage che lascia tutte le volte interdetti…
Qualsiasi inquadratura sembra essere lì perché c’è sempre stata: la macchina a mano c’è quando deve esserci, e rintuzza la tensione degli inseguimenti con una furia bestiale; il montaggio fa un lavoro stratosferico tra punti macchina necessari e mai scolastici: si vede quello che c’è da vedere con una naturalezza impagabile e per nulla innocente poiché la macchina si palesa eccome, seguendo sguardi strambi, allestendo colori di naturalismo quasi teatrale (le luci reali di Affonso Beato si sporcano di accese cromature di colore ibridate, in cui le tinte si sovrappongono in una maniera che riesce a essere sia teatrale sia tremendamente documentaria) e imbastendo primi piani di gente che guarda anche direttamente in macchina, ma sempre rimanendo narratrice comoda e sapiente: davvero uno spettacolo!

La scena clou, dove si palesa l’inghippo della vicenda, è fatta di semplicissimi frame consequenziali, piani e dolci, che nella più desolante naturalezza (quasi ovvietà) smascherano l’inganno con eruttante violenza proprio perché sono così “ovvi”: una visione che è disarmante e difatti lascia a bocca aperta…
Quaid parla con Ned Beatty dell’inghippo e tra i due, fino ad allora adoratisi quasi come padre e figlio, in un attimo (come in una novella di Giovanni Verga) si accende lo scontro: Beatty mette anche mano alla pistola, ma in un attimo, da lontano, con un normalissimo stacco, appare Grace Zabriskie che, con i suoi azzurrissimi occhi pallati (che tanto userà anche David Lynch), vede Beatty, e Beatty vede Zabriskie con un consequenziale e chiarissimo controcampo: una cosa normale, secca, palese, perfino giornalistica, ma, quasi come Silvio Pellico, ti colpisce gli occhi come una tramvata, nella crudeltà della sua immediatezza, nella violenza del suo semplice essere… Beatty è esso stesso colpito dallo sguardo di Zabriskie e si vergogna di essere visto: si copre perfino la faccia, si nega alla visione… e poi si allontana, mentre comincia, discreta e per nulla invadente, la musica, una sorta di blues gospel creolo, che neanche commenta, ma accompagna l’azione…
Una scena di disvelamento dei nodi di trama veicolata con i modi del cinema e con le implicazioni della visione paragonabile alla morte di Alec Guinness in Guerre stellari…
Sulla componente visiva c’è da dire anche che gli assassini sono stati sempre lì davanti a noi, come in Profondo rosso… e la risoluzione dell’inghippo, ci accorgiamo dopo, è ogni volta palesata da Ellen Barkin quasi ogni volta che parla (così come il finale di Total Recall di Paul Verhoeven si disvela tutte le volte che può): è proprio Quaid, inebriato dalla consustanzialità affascinante dei colori e dei segni nella facile New Orleans (è lei, la città, la Big Easy), che non vuole vedere, e come lui non vogliamo e non possiamo vedere neanche noi, perché siamo cullati da una macchina da presa narratrice che percepiamo ma è brava a nascondersi!
La scena clou di palesamento mediante la diretta visione, sottolinea anche questo aspetto…
La musica, una cosa per McBride centrale quanto il sesso, in The Big Easy è trattata quasi come i colori: è una musica narrativa sia partecipante sia estraniante:
di New Orleans c’è tutto (violini cajun, Terrence Simien, The Dixie Cups, Dewey Balfa, le bande di strada) e di certe cose McBride sceglie, perfino, versioni live… cioè nel film, in colonna sonora, si sentono gli applausi del live della musica!
La cosa, invece di disturbare, contribuisce alla consustanzialità tra istanze diverse della trama e della visione e ribadisce costantemente il mood della Louisiana… la musica, come la macchina da presa di McBride, c’è e si sente, ma c’è per accompagnarti, sicura, nella vicenda…
Il tema composto apposta da Brad Fiedel, fatto di semplicissimi accordi quasi blues, né felice né triste ma coccolosamente malinconico, entra in testa subito…
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Come molti doppiaggi degli anni ’80, anche questo di Big Easy, affidato alla SAS (ancora non si sa chi fu il direttore di doppiaggio), rappresenta una comicizzazione del film e anche una informalizzazione (Ellen Barkin chiama quasi tutti per cognome in inglese, cosa che in italiano non fa).
È un doppiaggio che si sente molto povero (colui che doppia Carmine Tandino fa anche almeno altre due voci di riempimento), ma sfoggia Carlo Cosolo e Claudia Balboni che, nel paradiso di comicità, si trovano al top dei loro anni migliori, e donano fantastiche espressioni a Quaid e Barkin… Supercomico anche Saverio Moriones su Ebbe Roe Smith…
Ovvio, pur denso di battute esilaranti italiane in luogo delle meno ficcanti inglesi, nel doppiaggio si perde tutta la componente francesizzante, e, vista la caricatura sul comico, il passaggio alla serietà del tono, sul finale, è quasi fin troppo repentino…
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The Big Easy è un poverissimo ma solidissimo film, degli anni ’80 meno commerciali, dall’atmosfera outsider, dall’aspetto underground del basso costo, ma brillantissimo per idee cinematografiche e risvolti etico-morali della trama, e comunicante un’idea di “vita” fatta di sesso, musica e “sincerità” di consapevolezza mediante la visione… una gioia!, che potrebbe anche destare l’interesse per tutti gli altri lavori di McBride…
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Paragonabile per atmosfera e sapienza narratologico-etica è Midnight in the Garden of Good and Evil di Clint Eastwood (1997), un capolavorissimo più serio, meno scanzonato e meno comico e sessuale, e certo più aperto a quell’espressionismo negato da McBride (espressionismo che Eastwood, comunque, doma molto bene), ma con le stesse implicazioni (cromatiche, diegetiche e musicali) di consustanzialità dei segni positivi e negativi…
uff
scrivi sempre recensioni molto belle ma di film mai visti LOL
E spesso anche difficilissimi da trovare!
Un «caveau» di film “che furono”! Ahha!
Un’analisi interessante e una recensione veramente bella su un film e un regista che conosco veramente poco. Grazie mille!
Grazie a te!