Once Upon a Time in Hollywood

Se date una “letta” alla lunga discussione che ho avuto con Sam Simon a proposito di Tarantino (la trovate a seguito del post sull’Ottava vibrazione di Lucarelli), vedrete quanto io sperassi davvero tanto che questo film mi facesse schifo…

Se mi faceva schifo avrei confermato tutti i miei pregiudizi su Tarantino, secondo me ormai decotto a maniera di se stesso da Kill Bill in poi…

Rileggendo quella discussione mi sento di confermare la mia convinzione che Tarantino sia parte ben consolidata di una certa industria (il film è distribuito da Columbia/Sony con un cast all stars simile a quello dei grossi prodotti di punta delle major classiche, e contribuirà a vendere tanti RayBan), ma devo smentire la mia idea di un regista abbonato e crogiolato alla/nella burletta sarcastico-nichilista riciclata e sempre uguale…

I difetti del film sono comunque tanti:

  1. Come molto Tarantino “prima maniera”, è fatto quasi di storie ed episodi conchiusi, quasi da saga, da serial, che lo rendono slegato e spesso sfilacciato, con diversi rami autonomi che, pur blandamente partecipanti a un’atmosfera comune e anche ogni tanto richiamantesi reciprocamente qua e là (quanto detto in storie ancillari spesso è ricordato in storie “principali”), finiscono, il più delle volte, per non andare in nessun posto, e stare lì, fluttuanti, lunghi e complessi quanto del tutto fine a se stessi… Bruce Lee, Sharon Tate al cinema, The Great Escape: tutta roba messa sulla brace senza alcun motivo, a gonfiare la durata a 3h senza un vero perché se non una supposta costruzione di atmosfera già solidamente garantita da altri elementi…
  2. Ha scene lunghe e inutili: Brad Pitt e Margot Robbie stanno in macchina decine e decine di minuti e non si sa come mai… — Margot Robbie, inoltre, cammina cammina e cammina, offrendoci goduriosi sguardi sulle sue cosce, mentre ti chiedi comunque perché le sue cosce debbano essere esposte così tanto (mai meno di 2 minuti per volta: accidenti: per forza poi il film dura 3h)
  3. È un film epistemologicamente di nostalgia, proprio tanta…

Questi difetti, però, si coagulano in qualcosa di buono e costruttivo…

  1. La gestione degli episodi conchiusi rende l’andamento un po’ farraginoso, ma poi il ricentrarsi di tutto quanto nell’evento finale è degno dei narratori top…
  2. La struttura in episodi conchiusi è gemellata con l’essere un film fatto di personaggi, le cui evoluzioni e caratteri sono l’ingrediente principale: e nella costruzione dei personaggi, Tarantino ha buttato tutta la sua sapienza, lavorando non solo una sceneggiatura preziosa ma anche istruendo un cast tecnico eccezionale…:
    • Barbara Ling (scenografie) e Arianne Phillips (costumi) delineano, in qualche modo scrivono, i personaggi con ambienti e vestiti in maniera superba: sono state davvero autrici insieme a Tarantino…
      Il personaggio di Brad Pitt non è solo Brad Pitt e quel che dice, pensa e agisce, ma è anche la sua casa, come si veste, le sue stanze, zeppe di dettagli degli oggetti studiati fin nei minimi particolari, e le sue camicie/magliette/giacche, tutte costruite con certosina esattezza… roba davvero da Kubrick e Carpenter, che afferma la grande idea dello storytelling cinematografico, oggi un po’ dimenticata, secondo cui scene e costumi non sono décors ma sono prolungamenti dell’attore, strumenti della sua performance e di quella della macchina da presa… ed è davvero un piacere vedere Barbara Ling (la sua arredatrice è la super-esperta Nancy Haigh) di nuovo al top dopo i Batman di Joel Schumacher…
  3. Gli attori si dànno anima e corpo al progetto, raggiungendo interpretazioni molto passionali e intense…
    • DiCaprio fa una cosa convincentissima, molto di più delle sue lotte con gli orsi finti in Revenant e le sue ridanciane gigioneggiature nel Wolf of Wall Street
    • Il caleidoscopio di attorini di contorno è magistrale: dalla figlia di Andie MacDowell (Margaret Qualley, la Pussycat della Family di Manson) a Austin Butler, dalla girl actor saccentina (Julia Butters) a Dakota Fanning a Luke Perry (nel suo ultimo ruolo): tutti con tratti peculiari, accattivanti, interessanti…
  4. La natura di fiaba nostalgica fa interlacciare molto meglio il sogno con i fatti
    • Tutte le fasi dei Tate Murders sono esattamente ricostruite anche se traslate in fiction, e la cosa disturberebbe ed estranierebbe (come disturba ed estrania la negazione della Storia in Inglourious Basterds) se non ci fosse l’ala della fiaba a sventolare un’aria di *incanto*, di *cinema*, che supporta la nostalgia di tutto quanto…
      • mi spiego:
        Tarantino sembra adorare così tanto quel periodo, averne così tanta nostalgia, appunto, da volerlo eternizzare in un lieto-fine di fiaba: ama così tanto quel periodo che lo *sogna* infinito, negando la tragedia metafisica che lo ha invece precocemente terminato; lo *sogna* inattaccabile, lo *desidera* continuato, perdurante, in una consolatoria illusione, che però è consapevole di essere illusione, e quindi è malinconica e triste…
        Il titolo da fiaba («c’era una volta»), sovrimpresso su un lieto-fine felice quanto (tutti lo sanno) mai (e mai stato) possibile, dà al film una valenza di fuga nel ricordo, oppure, più semplicemente (e, contemporaneamente, più cervelloticamente), nella finzione, nella storia (minuscola)… come se Tarantino si rifugiasse nella storia (minuscola) per sfuggire alla Storia (maiuscola), e stavolta, fuggendo (era fuggito in Inglourious Basterds), non si mette a ridere («sono fuggito dalla Storia nella mia storia: ahahahaha, come sono bravo e simpatico! Ahahahah»), ma si mette a riflettere su quanto la sua storia, la sua fiaba, sia per lui non motivo di divertimento ma di struggente conforto per una situazione che lui sa benissimo essere invece finita male!
        Se in Inglourious Basterds, Tarantino prende in giro tutti, in Once Upon a Time in Hollywood è consapevole di prendere in giro se stesso, ed è consapevole di baloccarsi con i suoi giocattoli, con i suoi personaggi di sogno (la perfezione di Cliff Booth, che sa fare tutto, che ha sempre tutto sott’occhio, che risolve tutto, che non sbaglia mai, neanche quando fuma gli acidi, è davvero del tutto cinematografica, da eroe classico [e l’ammantarlo di mistero, col discorso della moglie, contribuisce alla sua idea eroica], e tale caratteristica travalica di tanto la probabile ispirazione al realmente esistito Hal Needham: la funzione eroistica e quasi super-eroistica di Cliff, all’interno della strutturazione fiabesca di Tarantino, è più forte di qualsiasi “documento” o di qualsiasi “realismo”, e Tarantino sa bene di stare affibbiando funzioni fiabesche a tutti gli agenti Storici del 1969: da Sergio Corbucci a Bruce Lee), e finisce per giocare a un gioco che vorrebbe essere autoconsolatorio, ma che, essendo consapevole di essere autoconsolatorio, diventa struggente, quasi disperato…
        L’aver risolto i Tate Murders in fiaba, col lanciafiamme, e aver salvato tutti, ti consola, ma tu sai che non è vero: sai che lo *vorresti* vero, ma vero non è…
        Il lieto-fine diventa un sogno di consapevole negazione, che piange la sua consapevolezza… diventa un tempo perduto di Proust, il valzer ricomposto da Ravel dopo la disperazione della Prima Guerra Mondiale (la Valse), il Beethoven ricordato da uno Strauss in lacrime dopo il nazismo (numero 4 di questo post), o l’infanzia di Peter Pan, che si sa persistere solo a livello di non-vita…

Sulla valenza cinema e metacinema è inutile soffermarsi, essendo il film, come tanti altri di Tarantino, un campionario di cinema che si autorappresenta cinema…

Magari c’è da ribadire che, in questo straordinario apologo di nostalgia non fine a se stessa ma molto significante, gli slittamenti di tono tipici di Tarantino, e così disastrosi in film precedenti (vedi Django Unchained), qui sono calibrati al massimo proprio perché “esautorati” in fiaba: che ci si metta a ridere, di una risata anche amara, o anche di una risata sbrindellona e sdrammatizzante, in moltissime scene anche “serie”, fa parte di quella consapevolezza alla Proust precipua del film… idem, fa parte delle particolarità del film la conservazione e gestione davvero pregiata della tensione, che si respira a mille nella Family di Manson e anche nelle innocenti scenette scisse (le recitazioni di Rick Dalton e il duello con Bruce Lee)

Per il resto c’è sì da ribadire che 3h sono troppe e che certe lungaggini lasciano il tempo che trovano, ma all’interno di un progetto più che compiuto, su cui riflettere, e non solo sbudellarsi dalle risate inutili…

Un lavoro assimilabile a quelli di chi, in passato, a ridosso della Prima Guerra Mondiale (abbiamo visto Ravel e La valse), decisero di “elaborare il lutto” inventandosi storie a lieto fine molto malinconiche… per esempio, ancora, Ravel nell’Enfant et les Sortilgès, o anche Janáček nelle Příhody Lišky Bystroušky (vedi le Musiche per la primavera), Puccini nella Turandot, e (di nuovo) Strauss nella Frau ohne Schatten

Altre suggestioni a caso: le fardoncine (termine livornese per «donne di facili costumi») della Family hanno qualche tratto in comune con le amiche di Amma nella serie Sharp Objects di Marti Noxon e Jean-Marc Vallée (2018)…

Sull’ambivalenza di Once Upon a Time in Hollywood tra ucronia e Heisenberg, vedi Ultimo Spettacolo

6 risposte a "Once Upon a Time in Hollywood"

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  1. DiCaprio fa una cosa convincentissima, molto di più delle sue lotte con gli orsi finti in Revenant e le sue ridanciane gigioneggiature nel Wolf of Wall Street… oh là, fantastico!

  2. Finalmente eccoti qua! Il primo difetto che hai enumerato l’avevo appena discusso anche con Andre che era partito dalla considerazione che trovasse strano che gente che apprezza serie infinite senza trama criticasse il film di Tarantino “per non avere una trama”…

    Ti do ragione su tutto, naturalmente, anche sull’odio giusto per The Revenant, che io non ho sopportato nemmeno alla prima visione, e sulla ridicolaggine dell’Oscar a Di Caprio per quella sua performance che niente aveva se non l’endurance fisica da lui dimostrata per ragioni insensate.

    Alla fine ciò che ti ha convinto è l’interpretazione fiabesca, oltre al livello tecnico sublime di attori, scenografie, regia… e come lettura del film ci sta tutta. Sono d’accordo che la rilettura della storia funzioni meglio qui che in Django, forse il suo film più debole insieme a Death Proof e The Hateful Eight, almeno per me!

    1. Ma non ti puoi immaginare: siamo andati a vederlo (per fortuna in inglese), io, mia moglie e un’amica con cui s’è studiato cinema: tutti e tre predisposti malissimo, tutti e tre non tarantiniani, io stomacato da Django, ancipite (né bene né male) per The Hateful Eight, e tutti e tre abbastanza sicuri che ci facesse schifo… — mentre andava, subito ho pensato: «dé, gli episodi slegati sono noiosi» me invece vedevo che gli episodi slegati, in sé per sé, erano divertentissimi, ironicissimi, non si prendevano mai sul serio, e anche lì dicevo «vedi? ora la butta in burletta quando c’è da passare al tono serio», e invece il tono serio arrivava con una tensione che mamma mia: tutti e tre ci siamo trovati a tremare per la suspence e subito dopo a ridere di gusto per le scempiaggini esagitate di ridancianeria (il cane puntualissimo, Brad Pitt sovrumano, e naturalmente il lanciafiamme!), che però si erano tutte già “preparate”, proprio in quegli episodi che sembrano conchiusi e fine a se stessi! — e quell’idea di malinconia, data dalla consapevolezza di stare scherzando, che enfatizza ancora di più la *disperazione* che sia solo uno scherzo! — proprio c’ha ammazzato! — a noi prevenutissimi! — e quando succede così, quando ti stupisci, distruggendo pregiudizi e certezze “chiuse”, è, per me, un vero piacere! — non so se lo riguarderò a breve eh (sono comunque 3h), ma quando lo rivedrò sarò felice!

      1. Secondo me migliora con una seconda visione (al contrario di The Hateful Eight!) perché si può godere di tutti i particolari secondari (che secondari non sono) che abbondano in tutto il film! Lo aspetto in DVD/Bluray…

  3. A conferma di una delle tue critiche di Tarantino… esce una nuova versione del film con 10 minuti in più nei cinema statunitensi! X–D

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