È un film da festival, volutamente complicato, che se non avessi avuto presente la sinossi del romanzo di Jack London mi sarebbe risultato ancor più oscuro, ma è di quei film che a me piacciono…
- È fatto di immagini belle ma non lussuose né ostentate…
immagini di una grana da Nouvelle Vague, alla Louis Malle, alla Robert Bresson, o anche alla Ermanno Olmi, che fanno pensare a scatti di foto curati, preziosi, studiati, con le luci “corporee”, “visibili”, “pittoriche”, “macchiaiole”… non è una *ricchezza* cercata, alla Sorrentino, ma è una *ricchezza* metabolizzata, in qualche modo già presente, non costruita (non so se mi spiego: l’immagine è sì studiata ma per la ragione che se non la si studiava non arrivava, mentre invece Sorrentino spesso l’immagine la studia per far vedere che la sa fare e non di più)… - È costruito non con sequenze, ma con tanti frames da dare al montaggio (di Fabrizio Federico e Aline Hervé)… e non è un montaggio da pesca a strascico a raccattare il tanto girato a caso (come Guadagnino e Chazelle)… è un montaggio che sembra ribadire Henri Bergson (come si diceva in Paterson), cioè che il cervello funziona col montaggio, con i frames cognitivi…
La storia noi la si intravede tra le tante foto/frame pittoriche che si dipanano davanti a noi, e solo alcuni sono foto/frame diegetici, ma altri sono foto/frame simbolici, foto/frame che *stanno per* qualcos’altro, non solo per sogni di personaggio, ma anche per analogie di situazione, sintesi visiva di emozioni, o lampi leitmotivici di pensieri (alla Ejzenštejn, ovvio, o alla Abel Ferrara, o anche alla Don Siegel, o, più in piccolo, alla Sofia Coppola)… - È un film di sguardi centrati, spesso di soggettive e semi-soggettive, che guardano, o ricordano o immaginano “cose” (immagini) come le “vede” una macchina fotografica: ricordi visti come fotografie antiche posate, col “ricordato” (che solo a volte è un personaggio) ripreso al centro, su uno sfondo ben calcolato… Sguardi su ricordi di personaggi che rimembrano in una mente/cinema di cui noi stiamo vedendo il dipanarsi…
Immagini, frame, ricordi e montaggio che illustrano la vicenda di Jack London, vecchia vicenda nichilista sulla inutilità dell’arrampicamento sociale, visto come impossibile, sempre e comunque, nonostante gli anni che passano, le conquiste filosofiche del Socialismo, o l’ottimismo della volontà dell’individualismo illuminato… Non è possibile l’arrampicamento sociale: anche se sembra riuscire, quell’arrampicamento è una menzogna: chi è povero, povero rimane, e i ricchi ricchi rimangono, e non si “mescolano” con il popolo, non c’è madonne… e se lo fanno è per tornaconto…
Una tragedia della eterna società senza senso che l’homo sapiens non fa che ripetere dai tempi dello stanziamento agricolo in poi, e che Jack London faceva sua insieme a Thomas Hardy e al nostro Giovanni Verga…
Pietro Marcello immerge questa vicenda di Jack London in un ambiente che la eternizza e la universalizza in ogni modo… la tesi nichilista di London viene staccata da Marcello dal 1909 e viene frammentata in tutte le epoche, in tutti i frame, ricordi e montaggio che vediamo, quelli che noi vediamo dipanarsi in una mente/cinema sovrastorica, che saltella da un periodo all’altro, da un’ambientazione all’altra…
Il tutto, nel profilmico (la messa in scena) e nel postprodotto (come la messa in scena viene ripresa), diventa un mix affascinantissimo di tutti i tempi e i luoghi possibili, che vengono mescolati insieme dalla mente/cinema… [un meccanismo non avulso da idee simili a quelle che hanno ispirato Norman Jewison in Jesus Christ Superstar, che stavolta si applicano molto più sistematicamente anche al modo di riprendere e non solo al trucco e parrucco]
- Parlano tutti accenti del sud Italia, ma non si sa quale sud (Sicilia? Campania? Calabria?)…
- La gente però si appella comunque “Martin Eden” e “Russ Brissenden” anche se è nata e vissuta nel sud Italia…
- In TV si vedono cartoni animati inglesi…
- I personaggi, o meglio, i frame di ricordo dei personaggi che noi vediamo nelle tante immagini di macchina fotografica antica che vediamo, si muovono
- in un frame in quella che sembra la Napoli del 1880,
- in un altro in quella che sembra la Palermo del 1952,
- in un altro in quella che sembra la Roma del 1966,
- in un altro in quella che sembra la Sabaudia del 1938,
- in un altro in quella che sembra la Torino del 1919…
- La gente parla e agisce
- ogni tanto come se il fascismo fosse al potere
- ogni tanto come se il Regno d’Italia fosse all’alba
- ogni tanto come se si fosse nelle battaglie agricole di Brigantaggio
- ogni tanto come se si fosse nelle lotte operaie del 1919-1921
- ogni tanto come se si fosse durante il 1968
- ogni tanto come se si fosse agli albori del Marxismo
- ogni tanto come se si fosse alla vigilia della Rivoluzione d’Ottobre
- ogni tanto come se si fosse nel Giardino dei Finzi Contini
- Si nomina Dino Campana (1885-1932)…
- Si vedono, nei frame di ricordo montati come flash di macchina da presa antica, vascelli del 1810, alla Melville…
- Si vedono, in identici frame leitmotivici di ricordi/raccordo, bambini che danzano come nel 1978, o 1988…
- Nella scena finale scoppia una guerra e sulla spiaggia sembrano esserci uomini a metà tra gli arditi (1917-1919) e le camice nere “federali” di Starace (1931-1939)…
Tutto questo acchiappa e prende a mille, e fa riflettere sul portato di ulteriore nichilismo che questo scorporamento e rielaborazione sovrastorica ha sulla già nichilista vicenda di London…
Pietro Marcello sembra dire che passano gli anni, passano gli stili visivi, il modo di vestirsi, il modo di fotografare e pensarsi, il modo di sindacalizzarsi, di lavorare, di rendersi “socialisti”, ma l’uomo rimane quello: diviso in caste, caste di cui soffre, ma che non riesce a scrollarsi di dosso… [o vuol dire anche che il tempo sembra “passare”, ma invece non passa affatto: tutto rimane sempre nella stessa apparenza abbastanza stantia di un immaginato “limbo” a cavallo tra Otto e Novecento, indistinguibile: un’Italia, e forse un mondo rurale onnipresente, sempre fermi lì — la cosa è facilmente riscontrabile nei paesaggi agricoli odierni, ancora atrocemente stoppati a décors e ad azioni di 200 anni fa]
In tutta quella sovrastoria universalizzate dei suoi frame cognitivi di mente/cinema, forse Pietro Marcello trova in Jack London e in Martin Eden la cifra cinematografica dell’antistoria, del *non divenire*, con una forza “pastora” (la recitazione un po’ buzzurra, di Marinelli ma anche di Carlo Cecchi; gli stacchi belli atroci e molto ellittici; la fiera “incomunicabilità” con lo spettatore [non è un film facile, in cui lo spettatore ha tanto da impegnarsi se vuol “ricevere” il messaggio]) accomunabile a chi quell’antistoria l’aveva trovata nel Rinascimento (Teofilo Folengo, François Rabelais, Hyeronimus Bosch) o nel Romanticismo (Victor Hugo, che però nel Socialismo ci credeva)…
Come Folengo, Rabelais e Bosch, vissuti in un’epoca di grande fiducia nell’uomo (il Rinascimento), ci dicevano che l’uomo rimaneva cacca, un essere scatologico di bassi istinti…
Come Hugo, in un’epoca di grande idealismo, il Romanticismo, ci diceva che ci si poteva anche “credere” ma certo non fissarsi con nulla, poiché la crudeltà, dei regnanti vari in ogni epoca, è sempre quella e sempre sarà…
Come Jack London ci avvertiva che quel magnifico avvenire di progresso e scienza, che all’alba del Novecento tutti sembravano respirare, era da ritenersi poggiato su vecchie gerarchizzazioni di potere dell’uomo sull’uomo assai puzzolenti…
Così Pietro Marcello ci dice che si può essere tutto questo, in ogni tempo, in tutti i momenti dell’Ottocento, del Novecento, dove si vuole, in tutta Italia e in tutto il mondo, ma sempre sempre quella cacca c’è da respirare…
e ci dice questo con un cinema ben costruito, ben consapevole, e con una teoria del montaggio tutta da godere…
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A me ha convinto assai, anche se, c’è da ribadirlo bene, è un film che scorre di mmerda, che se non ti ci avvicini con un occhio alla trama di London ci sta anche che ti “morda”, e che esci dal cinema tutt’altro che riposato…
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