Un po’ di Mad Max, parte I

È sempre sorprendente vedere Mad Max, il primo, quello del 1979…
Sorprende sempre che due giovinastri (Miller aveva 33-34 anni durante la lavorazione e Byron Kennedy poco meno di 30) siano riusciti a tirare giù abbastanza soldi e a montare (la leggenda è che lo fecero in maniera rocambolesca: pare che Kennedy montasse il suono in salotto mentre Miller montava la pellicola in cucina) un film certo grezzo ma artisticamente coerentissimo come questo, grazie ad “aggeggi” strambi (il Todd-AO e la metodologia timecoding) che ancora non avevano attecchito nel cinema professionale australiano (alla fotografia c’è David Eggby, quasi esordiente, ma con davanti una più che buona carriera anche a Hollywood)…

Una sorta di miracolo produttivo simile a quello che gratificò la lavorazione di Evil Dead di Sam Raimi, uscito poco dopo (1981), e anch’esso assemblato con materiale di fortuna, tipo la macchina da presa rubata a scuola (simile a quella rubata da Werner Herzog a Monaco alla fine degli anni ’60)

Sorprende l’atmosfera di immensa tragedia del film, una tragedia molto simile alla tragedia attica o latina, a Eschilo o a Seneca: sanguinaria e dolente, violenta e immateriale, immane, priva di “commento” se non quello di un coro che intuisce ma che non capisce granché di quello che succede…
Un coro che sono le immagini, ancora oggi stupefacenti per immediatezza e precisione di montaggio (quello fatto tra il salotto e la cucina), che strutturano la tragedia in modo insieme fattuale ed estraniante, realistico ed espressionista…

Dalla parte “realistica” abbiamo una macchina da presa che viaggia con i personaggi, ed è attaccata ai veicoli, con una immensa pluralità di punti di vista, che il montaggio assomma facendoci vedere tutto quello che serve, in una narrazione implacabile, sintetica e basilare, fatta di inserti fulminei a sottolineare la concitazione di quel che accade, in velocità, seguendo gli sguardi, anch’essi fulminei, dei personaggi: tutto si muove veloce e ci si accorge, per esempio, del furgone che intralcia la strada all’ultimo minuto, come all’ultimo minuto se ne accorgono i personaggi

Dalla parte “estraniante” abbiamo un macchina che invece si accorge in anticipo del piano di Johnny di gettare il bolide sul camion di Goose, per creare tensione, per rattrappirci nell’angoscia… in quei casi, la macchina cambia focalizzazione per rosolarci nel timore, mostrandoci un narratore che nelle scene più “realistiche” aveva nascosto nella focalizzazione dei personaggi…

Alla lunga, con molti prodromi all’inizio, vediamo che il mix tra reale ed estraniante, si radicalizza molto onde cavalcare al meglio quella tragedia che intende narrare…

Le componenti della tragedia sono mogli morte, bimbi distrutti, mani tagliate, e la presenza ancestrale di un male inumano a cui contrapporsi, che si muove proprio con movenze istrioniche per niente plausibili…
I motociclisti cattivi sono coreografati in maniera del tutto pazzoide: ballano con passi lubrichi simbolici, gigioneggiano con gesti da pazzi in manicomio, parlano strambo, si acconciano nelle peggiori maniere (il Toecutter ha un sopracciglio sì e uno no, sbraita con vaniloqui e si sistema con stramberia la criniera bicolore; Johnny, prima di mettersi a inseguire Goose, si passa la fiamma dell’accendino sul braccio e sembra stupirsi che bruci!)…
e sono motociclisti cattivi che sbucano dappertutto, che sanno tutto, e che ti inseguono come una metafisica morte simbolica e assurda, pronta a trovarti in ogni dove…
Ma neanche i poliziotti, quelli che dovrebbero essere il bene, sono così esenti da comportamenti sopra le righe o da eccentricità ai limiti del folle…
E nelle battute parlate si palesa il fatto che il protagonista sa bene come tra lui e la morte simbolica dei motociclisti si rischia che ci sia solo il distintivo a fare la differenza…

Il coro delle immagini reagisce alla permeabilità tra la morte simbolica e quelli che dovrebbero essere i buoni, confondendosi ulteriormente, non solo tra le diverse focalizzazioni (tra l’inconsapevolezza dei personaggi e l’onniscienza del narratore), ma proprio mostrando, anche lui, segni di impazzimento…
Agli stacchi precisi di narrazione, si alternano veloci dissolvenze incrociate, quasi “blateranti” e deformate, scandite da musica quasi rumoreggiante e urlante (quasi “sgrammaticata” nell’orchestrazione, fatta di esagerati ottoni fracassoni, quasi come il finale della Salome di Strauss, o come parecchia roba di Bartók, Varèse o certo Stravinskij: il modello dichiarato è Bernard Herrmann): dopo queste dissolvenze si vedono scene quasi oniriche, come quelle in cui la Halls of Justice, diverse volte, appare colorata in modo astruso…
Ogni tanto spuntano anche stacchi sporcati da disperati “ondeggiamenti” dell’immagine, che fluttuano, tra un frame e l’altro, quasi da paragonare all’aria ondulata che si forma a contatto con la benzina, o che si vede al caldo di un’orizzonte assolato… Come a dire che il coro delle immagini non è sicuro e che forse ci sta facendo vedere quello che è solo un ondulato miraggio…

Le cose peggiorano quando la morte simbolica entra in azione: l’aggressione fisica alla coppietta nell’auto rossa è così disturbante (da mettere tra i vertici del fastidio filmico-metasifico insieme ai famigerati esempi, tutti successivi cronologicamente, di Gaspar Noè [Irreversibile e altri], di Gerald Kargl [Angst], di Guinea Pig, di Harmony Korine [Gummo e Julien Donkey-Boy], di Mick Jackson [Threads], Gus Van Sant [Gerry], del movimento Dogma95 e di tutta la baracca della crudeltà visiva) che le immagini non la reggono: alle immagini gli dà di volta il cervello vedendo quella violenza e, alla Ejzenštejn, sbroccano, “svengono”, mostrandoci un corvo che mangia, metafora e doppio della furia della morte simbolica in azione… ma così facendo quasi accentuano l’orrore invece che edulcorarlo…

Piano piano, seguendo il dramma e la tragedia, che si dipana molto velocemente (il film dura solo 93 minuti), l’impazzimento del coro di immagini diviene sistema, seguendo la follia del protagonista…

Una volta morti moglie e figlio, le dissolvenze oniriche si fanno ancora più metafisiche (non inquadrano più ambienti reali come la Halls of Justice, ma si fermano su cielo e nubi), e quando il protagonista va in fondo al garage per prendere il macchinone, egli sparisce, scompare, diventa dissolvenza lui stesso, dalla quale spunta il macchinone: ormai il protagonista non sarà più un “protagonista”, sarà egli stesso parte della tragedia, pazzo come le immagini, lì, perso, a lottare contro la morte, diventando morte lui stesso…

Da quel momento le dissolvenze veloci si moltiplicano e cominciano un sacco di transizioni a tendina, tipiche del periodo muto (simbolo di una “regressione” encefalica del coro delle immagini?)…

Dissolvenze e transizioni a tendina sono tipici elementi di designazione del tempo che passa: e il protagonista è diventato dissolvenza, e quindi è egli stesso “tempo”, egli stesso è un tempo/morte, e le continue tendine, insieme diegetiche (come quelle di George Lucas nel primo Star Wars, 1977) e metafisiche (quelle della ricerca dello scomparso “folle di dio” Johannes in Ordet di Dreyer, 1955), lo conducono verso un’ultima parte del film del tutto simbolica, senza alcun rimasuglio realistico…

La vendetta di Max sembra fulminea, occorsa in poche ore dal massacro della famiglia, ma essendo scandita da tutte quelle dissolvenze e dalle tendine, potrebbe invece aver richiesto mesi, anni, generazioni…
E Max, infatti, non è più Max Rockatansky, poliziotto di un già problematico ma ancora “riconoscibile” «medioevo prossimo venturo», in cui, sì, la Halls of Justice sembra una fabbrica dismessa, ma ancora è presente (così come lo sono i gommisti, la gente che vende i gelati; esistono i treni, le città, le spiagge), ma è forse già il Mad Max che si muove nel Road Warrior, dove la civiltà non esiste più…

Una trasformazione di personaggio e tempo, causata dalla tragedia, e tragedia essa stessa, che forse è anche trasformazione del mondo intero nella fiction, e, nella vicenda, rende il protagonista un nulla irrazionale, capace di far distrarre anche lui il coro delle immagini, che alla fine si sconvolgono di quello che fa lui come si erano sconvolte di quanto fatto alla coppietta dalla banda del Toecutter: le immagini si rifiutano di vedere il corpo di Bubba Zanetti e “svengono”, mostrandoci il falchetto che mangia come ci avevano mostrato il corvo…

E alla fine Max guida nel macchinone che riconosceremo nel Road Warrior, ma guida inespressivo e quasi morto

Un finale che posiziona il primo Mad Max in uno spazio che pare estraneo alla concatenazione della serie, come se fosse un film a sé stante, un prologo, oppure, perfino, un film del tutto avulso dalla serie…
Mica per niente Road Warrior abbisogna di un suo proprio prologo, dove si spiega la catastrofe nucleare…

Un finale simile a quello del primo A Nightmare on Elm Street di Craven (1984), che vede il beffardo trionfo di Freddy *prima* dell’ideazione della serie; o la allucinante scomparsa di Michael Meyers *prima* dello sfruttamento commerciale di Halloween (1978, solo un anno prima di Mad Max)…

Un finale che ci fa tremendamente sospettare che il Mel Gibson che vediamo nei tre film, il Max protagonista, possa non essere affatto lo stesso Max del primo, e mai davvero lo stesso Max in tutti gli altri film, nonostante la presenza di alcuni flashback e di certi acciacchi identificanti (che Miller ha tenuto a riprodurre anche in Tom Hardy in Fury Road)…

Il primo Mad Max è forse un’altra storia, un altro film, un qualcosa di diverso rispetto agli altri…

e forse tutti i Mad Max sono “indipendenti” l’uno dall’altro… come i diversi Batman o i diversi Spider-Man… un Mad Max, pur nella stessa serie e nelle stesse maestranze artistiche responsabili, che è tipo più che personaggio e maschera e figura più che persona…

Davvero ci sarà da pensare a Mad Max come a Batman, e forse come al Batman di Burton: a parte l’accenno a Vicky Vale, il primo e il secondo Batman di Burton non hanno poi così tanto in comune e si muovono perfino in una Gotham City palesemente diversa, in film sì connessi ma forse non identici
Una strutturazione seriale più per assonanze che per identità, più per allusioni che per argomenti, più per somiglianze che per continuità…

Una cosa che forse indagheremo…

Vedi anche Sam Simon

continua nella seconda parte

5 risposte a "Un po’ di Mad Max, parte I"

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  1. Hai ragione sul fatto che il primo è un qualcosa a sé rispetto agli altri, e che infine ciò valga anche per gli altri…
    Ma il primo resterà sempre mitico, anche ma non soltanto per le dinamiche produttive, alcune delle quali hai citato in apertura…

  2. Stupendo articolo!!! È un po’ che pure io voglio scrivere dei Mad Max…
    E mi piace l’interpretazione del Max diverso in ogni film: se non ricordo male, lo stesso Miller ha detto che i film potrebbero essere storie di eroi mitici dell’era post atomica, non necessariamente con sempre la stessa persona protagonista. Un’interpretazione molto epica ed evocativa, per quanto mi riguarda!

  3. Se ripenso al primo film non posso far altro che rimanere a bocca aperta. Costato quasi nulla ma con delle scene d’azione in moto davvero incredibili, montate benissimo e adrenaliniche. Poi il mio preferito della vecchia trilogia è il secondo ma tutti quanti avevano qualcosa da dire e lo facevano in modo originale e studiato.

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