La stagione si apre, per me, con un filmettino innocente, da seratina con la camomilla, però con una trama ben concepita (i dialoghi no, sono di normale amministrazione italiota) e una resa visiva “alla povera”, ma adeguatissima, di cui ci si può assai accontentare (si sta comunque parlando di Pupi Avati)…
Il twist di trama c’è… e arriva anche con una certa sorpresa (ha la componente sorprendente della pura e incontaminata semplicità)…
Inoltre, ha frame di ricordo/immaginazione ritornanti che non sono affatto da buttare…
È penalizzato perché è «de’ noartri», ma se, che ne so, fosse stato girato da Niels Arden Oplev per la TV slovacca, non sarebbe stato granché meglio a livello tecnico, ma, per esterofilia, lo avrebbero adorato in qualche festival!
Invece è di Avati, e beh, si guarda…
Non brutto
La visione, attenzione, è riservata agli over 75 il cui concetto di horror è Belfagor (la generazione di Avati)… ma non per questo c’è da considerarlo peggio di quello che è…
Tempistiche geologiche che son tipiche mie a parte, ho intenzione di leggermi piuttosto e prima di tutto il libro, che avevo adocchiato qualche mese fa.
“fosse stato girato da Niels Arden Oplev per la TV slovacca, non sarebbe stato granché meglio a livello tecnico, ma, per esterofilia, lo avrebbero adorato in qualche festival!”
ah ah verissimo!!
a me da un punto di vista visivo è piaciuto molto…
ma sai che ci ho messo qualche giorno a capirlo bene?
ammetto infatti che uscito dalla sala ero abbastanza confuso… e quando accade non so mai se sia la sceneggiatura o sia io che magari in quelle due ore ero confuso o poco attento…
Secondo me estrania perché, forse, ci si aspetta chissà quale “soluzione” o “coup de théâtre” (magari anche per chi ha negli occhi «La ragazza nella nebbia»)… e quando invece il finale giunge bello semplice, ma non meno “puntuto”, si rimane con una sorta di sentimento di “a bocca asciutta” che lascia stupiti (forse) più che attoniti… — ma il discorso visivo che consegue da tutto ciò, più ci ripenso, più che lo trovo intelligente: quello che noi vediamo e quello che sentiamo nella assai ellittica sceneggiatura (fatta di discorsi interrotti spesso bruscamente: esemplare il resoconto mancato di Roncato) è tutta una «costruzione», nostra e della macchina da presa: anche noi (e la macchina) si rimane impigliati nella diceria, la maldicenza e la superstizione, e, come il protagonista, vogliamo a tutti i costi *confermare* la diceria e la maldicenza… e siamo così contenti di poterla *verificare* (entrando nell’antro buio della verità, dove siamo convinti, ingannandoci, di averla davvero trovata la verità) che si casca dal pero quando invece la “verità” che scopriamo non è altro che essere stati noi stessi vittime di raggiro… un raggiro che, sì, magari, razionalmente, ci aspettavamo, ma che è stato “battuto” dall’irrazionale: quell’irrazionale che ci condanna al nulla scuro della morte; al nulla scuro di una “superstizione”, forse più grossa, che era lì davanti a noi e che, distratti, non abbiamo visto: la distrazione del male insito nella vita… — mica una cacchiata, anche se comunicata in salsa comacchiese, “chiozzotta” e “tortellinosa”… una cosa quasi alla “The Prestige”, ma molto più lapalissiana!