Dolor y Gloria

Nel panorama mucillaginoso del cinema odierno, è facile accontentarsi di fenomeni parastatali che sembrano grossi ed enormi…
Lo dicevo anche nei Film che…: tutte le volte che esce un film di Nolan, Tarantino, Sorrentino, Refn, Wes Anderson, Lars von Trier, c’è per forza da gridare al miracolo, all’ultraterreno, e c’è da strapparsi i capelli perfino per i cinecomics o per i live action Disney, e più che altro per quelli brutti…

Ci si può certo accontentare di questi fenomeni, ma vedendo Almodóvar si vede quello che può fare un MAESTRO…

E vedendo cosa può fare un MAESTRO, i fenomeni parastatali si afflosciano nella *cosetta*…

Le inquadrature di questo film sembrano immobili, ma invece si muovono quasi sempre, lentissime, spesso in carrelli in avanti, verso gli attori, ma altrettanto spesso anche lateralmente, a scoprire timidamente gli ambienti (una cosa del tutto opposta a come fa Wes Anderson, che si muove lateralmente sempre velocissimamente: la lentezza è una cosa che si impara)… e quando scopriamo che la maggior parte di quelle inquadrature non sono soltanto ricordi ma anche il film di quei ricordi realizzato dal ricordante, ci accorgiamo che quella lentezza è agita dallo sguardo di un artista che si muove male, che ha il mal di schiena, e che quindi non può tanto scapicollare a destra, a manca, in avanti e indietro… e perciò va con calma: guarda, osserva, e *ricorda* e insieme *vede*…

E se fosse solo il regista col mal di schiena a vedere, sarebbe già ok, ma non è soltanto lui: le sue immagini, bradipesche, scivolano nella loro polisemia, e si tramutano in sguardi del pubblico: un pubblico che siamo noi, o che invece è intradiegetico, in un cinema che riprende il teatro, e con la macchina da presa che un po’ è attore un po’ è audience, un po’ è di nuovo ricordo e un po’ è performance, un po’ è soggettivo (quasi mai) e un po’ è diegetico, un po’ è Storia un po’ è Discorso, un po’ è spettacolo e un po’ la ripresa dello spettacolo…

Un cinema che usa anche oggetti di “contorno”, quasi come membrane tra la macchina e gli attori, che funzionano come trucchi di Méliès (roba tipo l’acquario posto davanti all’obiettivo, o il vetro colorato), con l’oggettività “forzata” del cinema “primitivo”…

E un cinema che è riflessione di sé, e anche auto-rappresentazione, che ci presenta una trama come se fosse una vita, tutta da commuoversi, ma che poi ci ridice che quella vita è appunto rappresentazione, è spettacolo: era, di nuovo, un po’ vita e un po’ performance, un po’ vita e un po’ autobiografia, di quelle (come succede per Vittorio Alfieri o Benvenuto Cellini, o per Molière o per Casanova) in cui lo scrittore è anche personaggio: vite e storie, esperienze e finzioni: tutto insieme…

Tutto insieme su piani, membrane alla Méliès e su schermi: tutto insieme nel cinema, il cinema come unico modo per *vedersi*, per *capirsi* e insieme per *farsi*: esserci solo perché siamo sullo schermo, esistere solo perché ci si racconta, vivere solo perché si agisce in uno show
E lo show è dappertutto: non solo nel disvelamento finale metacinematografico, e nella onirica gestione cromatica (cose che proprio *sono* Almodóvar, e non rappresentano solo il suo stile), ma anche nelle metafore di schermo cinematografico dappertutto: nelle pareti bianche delle abitazioni, nei pannelli proiettivi del palcoscenico, nei tavoli bianchi sui quali si rinuncia a drogarsi e si soffia via l’eroina, che svapora come polvere su quel tavolo bianco, e quindi si fa proiezione su uno schermo bianco: eroina sbuffata che si fa cinema, poiché soffiando via l’eroina ricomincia la vita, e con la vita il cinema, perché solo con il cinema (fumo proiettato su schermo bianco) c’è la vita… o la rappresentazione della vita… [bianche sono le pareti della prigione-società di THX 1138 di George Lucas, 1971]

Una vita, perfino, andata male, contraddittoria e disperata, vissuta nella più odiosa Spagna di Franco (sono tutti poveri, costretti a occupare le grotte, ridotti all’analfabetismo e al lavoro ingiusto, con solo i preti in grado, quasi “aristocraticamente”, di elargire cultura e lavoro dignitoso), ma mai conosciuta né rappresentata davvero, affidata a un film stilizzato, dalle funzioni attanziali di «destino» che si sospettano fittizie, dalla visualità impercettibile (la macchina lenta che si muove quasi pesantemente in tableau vivant che però vengono praticati dallo sguardo sofferente del regista dolorante), e affidata anche a dialoghi spaccacuore di resa dei conti, di bilancio struggente, una vita forse non *credibile*, non *realistica*, ma invece è l’unica vita e l’unica auto-rappresentazione possibile in un mondo già di per sé privo di senso (vedi la violenza gratuita e omofoba nei quartieri poveri in cui si spaccia la droga), e in un genere umano incapace davvero di esistere (la dinamica degli acciacchi corporei, vista con immagini computerizzate e “inumane”, segno di una impossibilità di esserci di un corpo che sembra fatto per non esserci [vedi anche quanto dice Allie Fox alla fine di Mosquito Coast di Peter Weir, 1986]): la vita *fittizia* è sì non *realistica* ma è l’unica vita *vera* che ci possa essere…

Alla fine di White Hunter Black Heart (1990), Clint Eastwood, regista e attore, concludeva con l’action del suo film nel film, e cominciava una vita di nichilismo…

Almodóvar conclude Dolor y Gloria con il cut (lo stop) della conclusione della lavorazione del suo film auto-biografico, e finisce una vita trista, avviandosi però verso una morte serena (e infatti il tableau vivant del production wrap sfuma, tenue, nel nero), sicuro di aver vissuto l’unica vita “vera” che c’è…

…non so se è possibile non commuoversi…

Maura Vespini non fa un brutto lavoro, e non sono distribuiti male Antonio Sanna su Banderas (per altro già suo negli Zorro di Campbell) e Sandro Acerbo in Federico (Leonardo Sbaraglia)… Ma Simone D’Andrea su Alberto (Asier Etxeandia) e soprattutto Barbara De Bortoli su Penelope Cruz sono pessime scelte…
E il tono complessivo scelto da Vespini (come succede spesso nei film che lei affronta per Woody Allen) si vede non essere in accordo con quello scelto da Almodóvar, anche nei ruoli distribuiti meglio (anche Sanna si vede stare «da un’altra parte» rispetto a Banderas)…

Dolor y Gloria è il grande capolavoro di un MAESTRO, una grande riflessione sull’esistenza vissuta attraverso le immagini…

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Per una lettura meno cinematografista (e meno positiva) vedi Sam Simon

Una risposta a "Dolor y Gloria"

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  1. Bella recensione! A confermare quanto io di cinema capisca poco ‘sto film non mi ha entusiasmato, ma ho un rapporto molto difficile con Almodóvar da sempre… ne ho visti sei fino ad ora e me ne sono piaciuti due, Volver e La mala educación… mea culpa!

    Nel frattempo, ti linko alla mia recensione! :–)

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