Captain Marvel

Il problema, per me eterno prevenuto nei confronti della Marvel, è che Captain Marvel regge…

Il dop Ben Davis è al lavoro con la Marvel dai Guardiani della Galassia (2014), ed è un dop che io non amo affatto (vedi il piattume dei Tre Manifesti, l’imperizia di Stardust, la sciatteria di Hannibal Lecter: Origini del Male) ma che riesce a stupire qualche volta (vedi Kick-Ass)…
deve essere parecchio stimato alla Disney: lo hanno affibbiato anche a Tim Burton per il Dumbo live-action (tante volte con Bruno Delbonnel veniva troppo bello: ma non è bene parlare prima di aver visto nulla: anche Linus Sandgren ha fatto un bel lavoro nello Schiaccianoci, nonostante i miei sospetti che Johnston abbia preso un altro per le scene da lui dirette)…
Almeno da Doctor Strange (2016) popola i film Marvel, almeno quelli che ho visto (e cioè nessuno), di evanescenti e soffuse luci quasi al neon, che riempiono a fatica un frame limpido, asciutto, lasciando molto all’oscurità costruita, e baluginando come scintille al buio nella chiarezza spietata dell’insieme…
La cosa non è per niente priva di fascino, e ha forse un’anticchia di precedente nel Thor di Branagh e Zambarloukos, ma è lavorata da Davis in modo assai più sistematico e corposo… [non so valutare, però, quanto di questa resa visiva sia da attribuire a Trent Opaloch, che ha lavorato alla Marvel in parallelo con Davis, sul fronte degli Avengers]

Lo scenografo è Andy Nicholson, un buon professionista di design per il green screen, con all’attivo molte collaborazioni su set importanti con Tim Burton (è stato nelle squadre di Rick Heinrichs, Alex McDowell e Robert Stromberg), Nigel Phelps, Joseph Nemec III, e ha già fatto il suo capolavoro con Gravity di Cuarón…
Per Captain Marvel non va tanto al di là né del Bo Welch di Thor, né dell’Alex McDowell di Man of Steel, somiglia non poco al Neil Lamont di Solo, ma sorpassa di parecchio il Patrick Tatopoulos della Justice League, e l’Aline Bonetto di Wonder Woman

tecnicamente, quindi, ci siamo…
i registi sono ragazzetti che vengono dall’indipendente, come il Jon Watts dello Spider-Man: Homecoming, e quando hanno visto gli stipendi della Disney devono aver accettato di avere poco o nullo potere decisionale all’interno di un set semplicemente da mandare avanti, con l’unica possibilità di partecipare alle riunioni di script, script anche in questo caso, come in Spider-Man, gestito da un team di almeno 6 cervelli…
Come in Homecoming, questi registelli, in fase di scrittura, hanno centrato le tematiche fiabesche, del tutto identiche a quelle dello Schiaccianoci e i Quattro Regni… che andiamo a enumerare:

  1. Se in Homecoming la grana fiabesca rimaneva percepibile ma non era trattata a livello smaccato né centrale, in Captain Marvel non ci si preoccupa, per fortuna, neanche di mascherarla più di tanto, cercando, perfino, di riciclare il primo tentativo di interpretazione freudiana di un supereroe, e cioè quel pastrocchio che fu il primo Hulk di Ang Lee, nel lontano 2003…
  2. Come in Lee abbiamo i poteri come metafora di inconscio, ma a differenza di Lee non si va, meno male, nel solito e risaputo problema edipico (che affligge anche il Thor di Branagh e che è adombrato anche in Homecoming), ma, come nel King Arthur di Ritchie, si declina la fiaba dal punto di vista libertario, di liberazione sia personale sia “politica”…
  3. Si finisce, fenomenicamente, per essere più dalle parti di Valerian, ma concretamente si rimane nel recinto inconscio del within, del problema psichico-mentale della protagonista, e quindi la “libertà” dell’intreccio del plot non fa che doppiare la “libertà” della mente del personaggio: la cosa è un bene, anche bello grosso…
  4. Come in Gli ultimi Jedi la resa dei conti è “innervata” nella necessità del γνῶθι σαυτόν in una ottima scena chiarificatrice in cui si “combatte” l’Es e il Super-Io personificati nella casuale divinità di turno, che, una volta sconfitta, crolla palesando il suo precipuo essere “dentro di noi”: il nemico da sconfiggere è la nostra mente, e difatti il suo simulacro che crolla è fatto di macerie simili ai nostri stessi nervi…
  5. Appena Brie Larson ha “sconfitto se stessa” nell’annientamento della divinità farlocca, può spiccare il volo e stempiare da sola tutti quanti come mosche, anche astronavoni intere, senza correre il rischio di apparire ridicola, poiché la possanza di rimbalzare tutta da sé i “nemici” fa parte di una sincera e palese configurazione fiabesco-mentale: una mente pacificata dal conflitto e forte del γνῶθι σαυτόν è libera nel suo agire non più costretto dall’Es o dal Super-Io, e quindi può essere benissimo metaforizzata in “potere”, può “librarsi” ed esplorare tutte le sue possibilità e immaginazioni… l’Hulk di Ang Lee cercò in tutti i modi di ottenere una configurazione simile, ma le sue corse nel deserto, interminabili e prive di qualsiasi appiglio diegetico-metaforico, più che incastonare una funzione psichica suscitavano la necessità dello sbadiglio…
  6. Intelligente, nonostante si mantenga a livello assai basico, è l’idea di includere nella funzione fiabesca anche qualche idee visiva: cosa che sia Homecoming sia Ang Lee si sono guardati del tutto dal tentare… — nel macchinario mental-ricordante degli Skrull, le immagini sono ricordo manipolabile in maniera “plastica”, “plasmante”, da vedere ma anche da toccare con le dita, enunciando quel rapporto dito/occhio che solo Spielberg in Minority Report ci aveva degnamente illustrato; e come in Minority Report, quelle immagini da vedere e insieme toccare sono ricordo, mattone della coscienza, sentimento dickiano (ricordiamoci i ricordi dei replicanti di Blade Runner, vedi 42) su cui basare il γνῶθι σαυτόν della coscienza fiabesca, e quindi non solo mero stimolo della cornea ma bisogno “fisico”, palpabile, di strutturazione della psiche…
  7. E quando il dramma edipico, cacciato dalla porta, sembra rientrare dalla finestra nel personaggio di Jude Law, lo si riduce a rapporto allievo/maestro, in maniera fin anche troppo identica a quello tra la Slayer e il Watcher in Buffy; lo si riduce e lo si sbeffeggia con ironia (nell’ultimo contrasto tra Larson e Law) proprio mentre lo si rende pilastro della funzione fiabesca: il «I have nothing to prove to you» di Larson a Law è esattamente come «You have no power over me» di Sarah a Jareth in Labyrinth (numero 2 dei 10 personaggi)

i difetti sono gli stessi di tutti i film Marvel: sono film di eterna propaganda bellica, che vorrebbero atteggiarsi come Gerusalemme liberata di Tasso o La forza del destino di Verdi (numero 23 di Operas III), e stigmatizzare un presente guerroso stritolante, ma in quell’universo ci sguazzano, e, a differenza di Tasso e Verdi, non anelano proprio mai una pace…
Film di deleteria “abitudine” alla distruzione, alla diffidenza spiosa, al picchia e mena prima di chiedere spiegazioni, e dai contorni sempre più inquietosamente imperial-americanisti (i colori dell’America sbandierano dappertutto e sempre più insistentemente)…
Come si diceva in Top Gun durante l’analisi di Bohemian Rhapsody, i film Marvel sono certamente questo, ma quando riescono a mascherare il tutto in modi fiabeschi finisce che come fiabe si apprezzano… e Captain Marvel mi sento di apprezzarlo anche più di Homecoming

Insomma, è una fiaba Marvel imperialista e odiosa, ma che, se ci si limita a vederlo come fiaba, ci azzecca!

L’ho visto in inglese e quindi non posso valutare il doppiaggio di Marco Guadagno, che si è occupato anche dei sottotitoli italiani…
Elena Perino non la conosco, quindi non so cosa può fare su Larson…
Jackson fa una delle sue parti di grana brillante, e quindi forse Luca Ward poteva essere più indicato di Paolo Buglioni, ma anche Buglioni se c’è da andare nel comico ci va e come…
Niseem Onorato e Stefano Benassi hanno ruoli del tutto nelle loro corde…
…ma mi sa che in italiano non lo vedrò mai…

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