McKay è della risma di imbrattatori di pellicole, quelli che girano a caso, e nelle maniere più casuali, e poi riassemblano tutto in un lavoro infernale per il loro montatore… è venuto fuori insieme a Damien Chazelle e David O. Russell…
Tra i tre è quello meno “repubblicano”, quello meno attaccato alle tematiche del self-made man, e quello più riflessivo nei confronti del denaro, che gli altri due, invece, idolatrano (sia La La Land di Chazelle, sia Silver Linings Playbook, American Hustle e Joy di Russell sono storie di soldi, confezionate come se fossero “film” ma non parlano proprio di nient’altro se non della vecchia tematica «più “dindi” arraffi, anche rubando, meglio stai; l’arruffamento dei dindi è l’unica ragione di vita e di felicità; l’arruffamento e la conservazione dei dindi è la principale occupazione, il principale interesse degli esseri umani; e la cosa non è affatto un male!»)…
Il film precedente di McKay, The Big Short, era proprio una “lezione” all’americano medio su quanto purulenta potesse essere l’ingordigia avara… A livello stilistico non era venuto granché bene (zoom inconcludenti, macchine a mano immotivate, stile finto-documentaristico inutile), ma era chiaro, palese, e ben intenzionato…
Dopo due anni, McKay fa un nuovo pistolotto all’americano medio, cercando di stigmatizzarlo, di farlo sentire in colpa per aver votato Repubblicano dal Vietnam in poi…
Di nuovo, McKay porta con sé la chiarezza di intenti e di esposizione, e opta per un discorso tematico un po’ strabico:
da una parte cerca di arrivare a più pubblico possibile, sottolineando tutti i passaggi 2 o 3 volte, con diverse enfasi ribadenti, a prova di qualsiasi comprensione, e facendo questo diventa assurdamente didascalico (molto di più di BlackKklansman e arrivando perfino dalle parti di Animali notturni)…
dall’altra gioca sullo sberleffo e l’ironia, trapuntando il suo racconto con dozzine di svicolamenti obliqui tra racconto, documento, rielaborazione, fiction, docu-fiction, strizzate d’occhio a un “lettore implicito”, in un paradiso della meta-narrativa…
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Nel passivo del didascalico sfocia tutto lo stile alla ‘ndocojocojo di McKay: grazie all’impianto sottolineativo può inquadrare tutto il casuale che vuole perché sa di poterlo riagganciare a questa o quella ennesima illustrazione di avarizia, ingordigia e crudeltà dei personaggi… cuori finti, frame del passato anni ’60 americano, risse al biliardo, ami da pesca, fiumetti ameni, canyons suggestivi, macchine d’epoca, fogli, scrivanie, scarpe, pettini, baffi, tupé: McKay sa di poter inquadrare tutto questo senza alcuna coerenza, e in tutti i modi vuoto-vortuosistici che gli pare (giochesse con il fuori fuoco, con i suoi soliti zoom, con la macchina a mano, con lo sballottamento ecc. ecc.), perché tanto qualsiasi cosa, anche la più insulsa (gli angoli dei tavolini o le trine dei centro-tavola degli anni del Watergate ripresi di scorcio) sa che la può associare a qualsiasi tema: le risse al biliardo come i canyons potranno tutti, alla bisogna, essere tirati fuori per sottolineare la freddezza e la cupezza dei personaggi…
Ma questo stile fa gioco anche all’attivo dell’ironia: così tanti punti macchina e frame didascalici e/o senza senso vengono usati NON SOLO per una sottolineatura tematica a prova di ogni comprensione, ma anche per presa in giro di tutti: dei personaggi, degli spettatori, e perfino del film stesso!
Tra un fiumetto e l’altro spuntano anche falsi finali, versioni alternative, ricordi sballati, e anche discussioni, affidate sia alla voce fuori campo sia al montaggio, su come intendere questo o quel fiumetto, su come finire questa o quella vicenda, e su quale tono usare in questa o quella scena…
Finisce che nel bel mezzo di una scena orribilmente spiattellata, magari con un infarto evidenziato dall’immagine del cuore che si rompe (il massimo dell’ovvio), si assiste a una sorta di resumè stilistico in cui McKay stesso, o un suo narratario (impersonato anche dalla comoda voce fuori campo), tira le fila delle possibilità “editoriali” di resa di quella scena, anche fermando le immagini e “discutendone”, per poi suggerire e intraprendere diverse soluzioni…
Finisce che certe scene sfociano anche in uno stile del tutto “aperto” al pubblico, quasi come quello di Don’t Worry di Gus Van Sant…
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Per cui, che dire?
È un film spiattellato, che politicamente rosica molto, e stigmatizza proprio da maestrino un pubblico che ritiene imbecille, in una lezioncina che incappa nel dramma di molti film politici, quello di dire alla gente come si deve comportare…
Però, se si è autenticamente Democratici (con tutto il portato assurdo che tale dottrina politica ha in sé), il film diverte molto…
E, pur in uno stile tutt’altro che da adorare, fatto di casualità e di “impasti” di troppa roba, trova molte volte idee interessanti nella presa in giro, nello sberleffo e nell’ironia delle immagini e della meta-narratività, in cui tuffarsi con gioia…
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In W. di Oliver Stone (2008), Dick Cheney era un misuratissimo Richard Dreyfuss, anelante di arrivare più al petrolio della Siria che a quello dell’Iraq, in un sogno (anti)utopico di rinascita neo-mesopotamica di un’Impero dell’oro nero poggiato sulle stesse fondamenta assiro-babilonesi dell’antichità… la sua recitazione misurata era anche più paurosa della “voce grossa” quasi noschesiana di Bale… e la mano di Stone era più attenta a rendere la solitudine della follia del potere, altrimenti detta la banalità del male, piuttosto che il para-satanismo dei potenti…
McKay, invece, ha optato per il sardonico, quasi avvicinandosi al Divo di Sorrentino (di cui ricicla anche un paio di “monologhi” con lo sguardo in macchina)
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Nel 1997, Barry Levinson, in Wag the Dog, intraprese una strada simile a Vice, anche lui, però, senza incentrarsi granché su un unico tipo diabolico…
L’atmosfera di “pandemonium” dei potenti, intrisa di ironia amara oltre che di riferimenti meta-narrativi e meta-cinematografici, McKay l’ha totalmente ripresa da The Second Civil War di Joe Dante (1997), quasi di più che dal Dr. Strangelove di Kubrick (1964), il cui riferimento ormai è certamente più grammaticale che citazionista (mi spiego: non è che si “cita” Dr. Strangelove, è che gli stilemi di Dr. Strangelove costituiscono la sintassi di un genere “politico”, e riferircisi non è più «citare» ma semplicemente «far parte del genere»… se non fosse così, allora chiunque inquadri la Monument Valley starebbe citando Ford invece di girare un western, non so se mi spiego – è come dire «cita Pascoli» solo perché usa i due punti!)…
Nel 1998, Mike Nichols, in Primary Colors, tentò di fare un’operazione complementare a Vice, stigmatizzando il comportamento dei Democratici, con riferimento all’affare Lewinsky… ma cadde nel tragicume e nella lacrima facile…
Nel 2007, Brian De Palma, in Redacted, sulla stessa tematica (la guerra in Iraq), usò il mezzo cinematografico tra documentario e fiction in un modo assai congruente con Vice…
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Rodolfo Bianchi ha avuto il suo bel da fare nella versione italiana… e aveva problematici precedenti…
In W., Andrea Ward affidò il Cheney di Richard Dreyfuss a Carlo Reali, che tirò fuori una interpretazione stupenda, melliflua e davvero cattiva…
…e se Stella Musy su Amy Adams, Christian Iansante su Sam Rockwell, e Franco Mannella su Steve Carell sono ormai scelte consolidate (su Adams solo Ilaria Latini riesce a fare da concorrenza a Musy, anche parecchio agguerrita; invece qualsiasi altro si avvicini a Rockwell sembra compiere disastri [vedi Riccardo Rossi in Tre manifesti a Ebbing]: forse solo Giorgio Borghetti riesce a uscirne a testa alta, ma ormai lo doppia poco; su Carell, Mannella deve sempre vedersela con Massimo De Ambrosis, rispetto al quale è però molto più “straniamente” misurato!), Christian Bale (come fu il Bruce Willis degli anni ’80 e ’90) viene affibbiato a tanti attori adatti alle circostanze…
…nei Batman di Nolan, Marco Mete lo affidò a Claudio Santamaria: una scelta che fece me molto contento, ma che invece scontentò tutti gli altri…
…in The Big Short, Claudia Razzi lo dette a Loris Loddi: anche questa una scelta a mio avviso eccellente…
e tra Santamaria e Loddi io non saprei chi scegliere, mi sembrano entrambi adattissimi a Bale, e Loddi avrebbe tirato fuori un lato sardonico ottimo…
…tutti vorrebbero, invece, che il solo doppiatore di Bale fosse Riccardo Rossi: certamente bravissimo, ma quasi sempre standard su un attore, al contrario, ogni volta molto cangiante…
Bianchi mette tutto nelle mani di Luca Biagini: un attore immenso, sempre capace di interpretazioni al top (e guarda caso proprio colui che alla lunga, negli anni 2000, si è accaparrato anche Bruce Willis nella maggior parte delle occasioni)… che eccelle anche qui, benché faccia parte di una resa italiana, ripeto, piena di complicatezze irrisolvibili:
Bianchi, forse per scelte del supervisor, lascia in inglese l’Archive Footage e doppia solo la componente fiction: finisce che, nei filmati d’archivio ritoccati, parlano alcuni italiano e alcuni in inglese…
Inoltre, l’aderenza dei doppiatori ha a che fare non solo con gli attori ma anche con gli uomini da loro interpretati… il risultato, evidente soprattutto su Bale/Biagini, è sì una fantastica resa, ma più simile a una sovrapposizione che a una interpretazione… per capirsi, spesso Biagini sembra più doppiare un reality che un attore: sembra più fare la figura di Gianluca Iacono su Gordon Ramsay, di un doppiatore su un non attore che di un doppiatore su un attore…
…ma sono solo impressioni ovviamente…
anche perché il far trasparire che il doppiaggio è solo traduzione sovrimpressa a qualcos’altro, seppure si trascina dietro un’impressione fastidiosa, non è una prassi così tanto da condannare…
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Da non perdere il parere dell’Ultimo Spettacolo!
io ho preferito the big short a questo…
ma nel complesso mi è piaciuto anche Vice, sia chiaro…
è che qui McKay si è un po’ ripetuto, ma del resto ha creato un suo stile…
anche io ci avevo visto richiami a Il Divo, anche se secondo me il film di Sorrentino è più riuscito sia nel complesso sia nello specifico delle trovate registiche