«Copenaghen» di Frayn alla Pergola

Copenhagen (1998) è uno dei grandi capolavori di Michael Frayn, insieme a Noises Off [Rumori fuori scena, 1982], che ebbe un certo successo anche in Italia, una ventina d’anni fa, quando Marco Sciaccaluga lo allestì con Zuzzurro & Gaspare, e di cui c’è il film di Peter Bogdanovich (1992)…

Copenhagen è un play che “inaugura” molta drammaturgia anglosassone sul nazismo, un fronte che poi ha visto Ronald Harwood come decano formidabile (vedi Taking Sides [La torre d’avorio, 1995], Collaboration e An English Tragedy [entrambe del 2008]), il quale però si è molto più instradato sul “realismo” e sulla “positività” della scena, mentre Frayn ha affrontato tutto (forse memore di Free Fall di William Golding, 1959) in modo “anti-teatrale”, “riflessivo”, “non fiction”, quasi “epico”…

I personaggi, ormai morti, parlano di loro stessi e dei loro ricordi; sviscerano possibilità alternative ai fatti, basate sui sensi psicologici dei loro detti e dei loro atti; si analizza quello che è successo e quello che sarebbe potuto succedere, o “dovuto” succedere, e si fa quasi un processo alle intenzioni: ne sorte una commedia e una anti-commedia, così come ci sono il tempo reale e il tempo immaginario, o la materia e l’anti-materia nella fisica quantistica…

Perché di fisica quantistica si tratta:
la commedia si incentra sull’incontro tra Werner Heisenberg e Niels Bohr nel 1941…
Premuti da un trascorso professionale felicissimo (nella sinergia tra i due, che lavoravano in ruoli tra il professore e l’assistente e tra il padre e il figlio, nacquero il principio di indeterminazione e l’idea di continuità del movimento “elettro-nucleare”) ma anche da un passato triste (probabilmente Heisenberg c’era quando il figlio di Bohr morì in barca) e da divergenze caratteriali non trascurabili (Heisenberg spiccio, poco filosofico e “sgomitante” per il successo; Bohr tranquillone e riflessivo), si “scontrano” sui temi etici della guerra (Heisenberg non comprende la follia nazista e accetta di essere il capo del programma nucleare del Reich) e sulla bomba atomica, generando un grave «malinteso» dalle conseguenze “assolute”:
Una volta scoperto che la bomba atomica è “possibile”, Heisenberg cerca di tergiversare con gli apparati nazisti e va a chiedere consiglio al vecchio maestro Bohr, forse cercando un’intesa di “non belligeranza”, oppure una smentita ai suoi calcoli sulla “possibilità” della bomba, ma alle sue prime parole Bohr, al contrario, capisce che il Reich sta lavorando *davvero* alla bomba, quindi scaccia l'”allievo” e si industria per fuggire in America per collaborare con Oppenheimer al Progetto Manhattan alleato…
Ma il processo alle intenzioni della play affronta il fatto che Heisenberg, forse inconsciamente, nonostante le sue nerborutezze di carattere (e il suo non salvataggio del figlio di Bohr in barca), e la sua ferma convinzione patriottico-germanica (lui che aveva vissuto le umiliazioni della Pace di Versailles del 1918), stava davvero “tergiversando” nel costruire la bomba in Germania, sbagliando i calcoli forse apposta, magari anche sicuro che il suo amico Bohr avrebbe fatto lo stesso in America…
…e invece la bomba si costruisce, e scoppia a Hiroshima…
e se Heisenberg non fosse andato a cercare conforto/consiglio da Bohr nel 1941? Le cose, allora, come sarebbero andate?
…ma Heisenberg ci andò, e, come un fotone “luminoso” alla ricerca di un elettrone, trovò Bohr che, come un elettrone colpito dal fotone, reagì e *deviò* la sua orbita destabilizzando anche lo stesso fotone: quell’incontro tra il fotone Heisenberg e l’elettrone Bohr creò una INDETERMINAZIONE, imprevedibile e “smaterializzante” per entrambi… creò l’*indeterminazione* metafisica più grande di tutti i tempi: la bomba atomica…

Spesso allestito proprio in scenografie che ricordano un atomo, con gli attori che girano intorno a un centro del palco simile al nucleo, alla Pergola è stato montato da Mauro Avogadro seguendo di più i dettagli “epici”:
Siccome nulla è veramente raccontato, e i personaggi parlano di loro stessi quasi “criticandosi” e “interpretandosi”, e recitando spesso più versioni dello stesso evento anche proprio “annunciandole” («adesso facciamo un’altra versione / another draft»), Avogadro ha visto tutto in una sorta di aula universitaria che è quasi un limbo di “al di là”, pieno di lavagne su cui scrivere e scranni di emiciclo su cui sedersi, in cui Massimo Popolizio (Heisenberg) e Umberto Orsini (Bohr) giganteggiano *spiegando* fatti, eventi e formule a Giuliana Lojodice (la moglie di Bohr, che fa la raisonneur realistica del play: ricorda i fatti nudi e crudi, e spesso ribadisce la spinta razzista del Nazismo, che quasi si autocondannò a non avere un programma nucleare perché scacciò, con gli ebrei, anche le migliori menti tedesche)…
Un progetto scenografico che, nel mio piccolissimo, a me ha ricordato l’allestimento di Gigi Dall’Aglio del Galileo di Brecht (il nume del teatro epico) con Mariano Rigillo (1999): uno spazio teatrale a misura dello show, pronto a “servire” e ad “essere disponibile” per qualunque evenienza del drama… rispetto a Dall’Aglio, autore di uno spazio adatto alla bisogna quasi di qualunque play (in perfetto accordo, in effetti, con i dettami di Brecht, allineati agli analoghi precetti di Jacques Copeau: entrambi “derivano” dallo spazio elisabettiano del Cinquecento), Avogadro ha molte più istanze “diegetiche”, più ancorata alla trama e solo a quella: è una scena davvero tutt’uno con il testo, a cui si aggiungono anche le proiezioni che “propagano” i pensieri e ingrandiscono le conseguenze delle azioni (dalle formule matematiche che invadono il palco agli immancabili funghi atomici che contrappuntano il finale)…

Gli attori sono in tour con questo show, tra un revival e l’altro, da più di due anni, e quindi sciorinano tutte le “intenzioni” e tutte le “caratteristiche” con disinvoltura: Heisenberg è cocciuto ma anche insicuro e infantile, e Popolizio, enorme di statura, sa bene come “rimpicciolirsi” quasi in modo “fetale”, grazie alla ottima duttilità vocale (e la sua ultima battuta sull’«indeterminazione nel cuore delle cose», pronunciata in una mezza voce quasi commossa, non può non far piangere tutti!); Orsini infonde a Bohr una certa maestà autorevole, regale e quasi atarassica; Lojodice, col personaggio più difficile (quella che parla meno ma che parla meglio: una sorta di Anita di West Side Story: quella che, come dice Arthur Laurents, «entra, fa un gol, e subito se ne va!»), sottolinea bene la componente di “risentimento” della moglie di Bohr…

La traduzione è di Filippo Ottoni e Maria Teresa Petruzzi, traduttori molti intelligenti e “scenici”, anche se il loro linguaggio è quello fin troppo aulico del consueto dettato teatrale (una cosa che si nota spesso anche nei film di cui Ottoni cura la versione italiana)…

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