In occasione di Café Society l’anno scorso feci un riassunto dei collaboratori tecnici di Allen, anteposto alla vera recensione (vedi Spin Freely), non proprio entusiasta…
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Il non entusiasmo deve purtroppo ripetersi per Wonder Wheel…
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La parte del leone la fa Storaro:
- i suoi colori espressionisti sono una gioia
- i suoi movimenti di macchina, complicati (come vedremo), dànno un senso tutto loro alla vicenda, arricchendo la sceneggiatura di Allen…
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Allen scrive stanco i suoi luoghi comuni, con le donne pazzoidi e manipolatrici, e gli uomini superficiali e ubriaconi, che acquistano senso solo grazie all’ambientazione anni ’50… Il déjà vu con Blue Jasmine (numero 12 del Conte di Palomino) sono parecchietti, e Blue Jasmine era già di suo un déjà vu…
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Questo parere tranciante è in parte contraddetto (come avviene in Café Society) dalla scrittura visiva di Storaro, che sembra, come dicevo, arricchire la storia con nuovi sensi…
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I movimenti di macchina complessi sembrano essere agiti da una macchina “narratrice” e “teatrale”…
Nell’angusto spazio della stamberga dove abitano i protagonisti, la macchina riesce a muoversi in maniere quasi del tutto irreali, e, molte volte senza stacchi, va a “rincorrere” un personaggio e una situazione per inquadrarla meglio e corroborarla con il suo sguardo… sarebbe un atteggiamento da “reportage” se la finalità non fosse sempre quella di accompagnare e sottolineare la narrazione…
Una narrazione sottolineata, e quasi del tutto proposta, anche dai numerosi e magici cambiamenti di luce, che mutano ancora senza alcuno stacco sui volti dei protagonisti…
Movimento e luci sono quindi portati da una macchina, come dicevo, recante NON sguardo di reportage, ma proprio presente come occhio d’azione, proprio CAUSA dell’azione: una macchina da presa, dicevo, TEATRALE: luci pompose, quasi da riflettore di un teatrino amatoriale, e movimenti quasi esagerati, quasi da feuilleton, ad accompagnare azioni ugualmente assurde, stereotipe ed esagitate, anch’esse teatrali…
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Ma teatro e sceneggiate varie sono anche i sogni, i trascorsi e le azioni presenti dei personaggi: e l’intera vicenda è fatta di “teatro”… e c’è un narratore (Timberlake), che da subito ci dichiara «vi racconto una storia, io che voglio fare il drammaturgo teatrale alla Eugene O’Neill»
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Se teniamo presente questo, allora la scrittura visiva di Storaro è la scrittura dell’irrealtà teatrale della vicenda: i movimenti di macchina sottolineano la passione dei sentimenti ma ne sanciscono anche l’irrealtà; le luci anti-reali da riflettore denunciano la natura di “scena recitata” nei dialoghi e nelle situazioni, e i monologhi sono spesso parlati con lo sguardo in macchina, quasi come da un attore sul proscenio…
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Questa mancanza di realismo, come in Murder on the Orient Express, potrebbe perfino autorizzarci a dubitare dell’effettiva esistenza del personaggio di Juno Temple…
Il di lei arrivo è annunciato da un drammaturgo, e dopo la sua non visibile morte tutto ritorna come prima: è stata tutta una storia? la storia scritta da Timberlake? o un ennesimo film mentale di una teatralosa ed esagitata Winslet?
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Le immagini ci autorizzano a indugiare in questi sospetti…
e questi sospetti sono la parte migliore del film, che senza questi sospetti goduriosi rimane quasi sgonfio…
Se tutto fosse finto, allora gli stereotipi anni ’50 e le esagitazioni avrebbero un senso, ma se invece tutto “accade”, allora la storia è banale… anche perché, senza questi sospetti, la storia allora sarebbe davvero sempre la stessa storiella che Allen racconta da migliaia di anni, con la medesima Ringkomposition di tutti i suoi film (dove sempre la situazione iniziale ritorna alla fine nella tristezza e nel nichilismo, spessissimo dopo un fatto di sangue, guarda caso)…
ma se la storia è banale perché ci sono le luci blu e rosse sparate? perché gli sguardi in macchina? perché i movimenti di macchina da feuilleton (l’ultimo sul coltello sguainato, mentre la luce diventa di un biancore accecante, è proprio da enfasi massima: l’episodio, più che sottolineato, è proprio marcato e ripassato con la biro!)
Storaro, con questi sospetti visivo-diegetici, ribadisco, MIGLIORA la solita storiella di Allen, con grande maestria di narrazione per immagini, e instilla dubbi meta-cinematografici tutti suoi!
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Conclusione:
se ci perdiamo nella scrittura visiva di Storaro, ci abbandoniamo al meta-cinema e al discorso sulla natura della narrazione per immagini, e compiangiamo le caratteristiche stereotipiche dell’esistenza, così simile ai feuilleton…
se ci accontentiamo della sceneggiatura di Allen, abbiamo gli stereotipi, i déjà vu e poco altro…
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L’ho visto doppiato da Maura Vespini (devo aver perso qualche passaggio, perché la compagnia di doppiaggio è la CDC mentre io credevo la Vespini e Allen consueto lavoro della CVD… boh… mi informerò), che a mio avviso sbaglia
- virando molto sul comico
- rimarcando troppo la gestione “per ruoli”, da Commedia dell’Arte, che Allen utilizza molto più blandamente… mi spiego: che Juno Temple sia lo stesso ruolo di Evan Rachel Wood in Whatever Works, della Johannsson di Scoop, e di Natasha Lyonne di Everyone Says I Love You (solo per dirne alcune) è palese a tutti, ma essendo attrici diverse la cosa si “stempera”, o, per lo meno, si “palesa” nel sistema dei ruoli e dei tipi… Maura Vespini, affidando tutte le attrici suddette a Ilaria Stagni, proprio appiccica di forza il ruolo al personaggio, in qualche modo quasi squalificandolo… della serie: «che cavolo ti sforzi a farlo “diverso”: il tuo è solo un ruolo uguale a mille altri!»
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La cosa a me tange poco, in effetti, adorando io Juno Temple e Kate Winslet praticamente sempre!
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In soldoni:
non butti via i soldi, ma bisogna andare preparati a guardare più che ad ascoltare…
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Alla seconda visione in inglese il film migliora molto… in primis si scopre effettivamente drammatico e non comico (come l’ha voluto la Vespini): e poi la metafora teatrale, in originale, si scopre ancora di più mediante cambiamenti di tono che quasi riflettono (anche se mai oggettivamente) i cambi di luce…
Inoltre, rivisti, i movimenti di macchina, stavolta, mi sono sembrati molto più aderenti a quelli di uno SPETTATORE di uno show piuttosto che (come avevo visto la prima volta) a quelli di un drammaturgo: la macchina molto spesso divaga avanti e indietro nei minuscoli set quasi “aggirandosi” come fa lo sguardo di una audience su di un palcoscenico a teatro (con una conseguente apoteosi del fuori campo escludente certi punti del “palco” nelle scene “madri”, tutta da analizzare e studiare)… — la cosa, invece di contraddire la metafora teatrale, non fa che sottolinearla ancor di più!
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