La La Land

PREAMBOLO: MACCHINE DA PRESA DAVANTI A SHOW

Il grande autore di musical Stephen Sondheim nei contenuti speciali del DVD di Sweeney Todd di Tim Burton (basato su un suo lavoro), affermava che Burton era riuscito a fare una cosa molto rara: creare un film da un musical… cosa rara poiché a Hollywood l’andazzo principale e più diffuso sulla ripresa dei musical è sempre quella da 70 anni: prendere una macchina da presa e piazzarla davanti al palcoscenico “virtuale”, senza, praticamente, mai muoverla…

Così hanno fatto, per anni, anche grandi registi (Mark Sandrich, Jean Negulesco), i quali piazzavano una bella macchina davanti a Fred Astaire che ballava e basta, punto.

Ben poche sono state, nella storia, le eccezioni a questa regola, ma ci sono state: Busby Berkeley, Stanley Donen (solo a volte, visto che Donen è il regista del film appena linkato, Royal Wedding, del 1951), Vincente Minnelli, Bob Fosse (qualche volta, ma non sempre), e poi, con l’avvento degli anni ’60 e ’70, è stata in qualche modo la “regola” a diventare eccezione: Jerome Robbins e Robert Wise riuscirono in una supersonica unione musica/cinema in West Side Story (1961), e Norman Jewison ce la fece a dare una supersonica dinamica al suo 2,35:1 in Todd-AO (anche grazie a Douglas Slocombe e Antony Gibbs) in Jesus Christ Superstar (1973), con un magnifico accordo tra ritmo e montaggio: e la strada seguita da loro in qualche modo si consolidò nei filmetti musicarelli, improntati più alla danza che al canto, degli anni ’80 e ’90 (Dirty Dancing [1987], Footloose [1984], Flashdance [1983]) e anche in musical veri e propri (Chorus Line [1985] di Richard Attenborough o Evita [1996] di Alan Parker). Le “risacche” di mettere la macchina da presa davanti alla messa in scena però non si sono mai estinte: Gene Kelly in Hello, Dolly (1969), Carol Reed in Oliver! (1968), e più avanti fino ai giorni nostri, Joel Schumacher in The Phantom of the Opera (2004), Alan Shankman in Hairspray (2007), Rob Marshall in Chicago (2002) e Into the Woods (2014), e perfino, in un certo modo (anche se più inventivo) Tom Hooper in Les Miserables (2012), non fanno che riciclare il vecchio anatema di Sondheim: spettacolo con davanti la macchina da presa che riprende, spesso in maniera frontale, in modo interte…

Ho cominciato con questo preambolo per capire La La Land, del quale è difficilissimo spiegare il perché della mia opinione sostanzialmente negativa.

1.1: FINTO POST-MODERNO

Inizia con gli stemmi delle major (la Summit) resi vintage e anticati artificialmente in stile anni ’50 o ’60, con perfino l’indicazione «presented in Cinemascope» con il mascherino che si allarga ai lati proprio in diretta, a sottolineare l’”avvento” del Cinemascope: una cosa che si faceva spesso negli anni ’50, quando il Cinemascope era una meraviglia nuovissima e scintillante…

Cose come queste sono comuni nei film post-moderni che vogliono ricreare un genere “antico” (come il western: Tarantino rende spesso antichi i suoi titoli di testa), o rappresentare un’epoca storica precisa (come fa David Fincher in Zodiac, 2007): Chazelle lo fa in La La Land, ma poi il film inizia e siamo ai giorni nostri…

Perciò ci chiediamo: «ha anticato i titoli di testa perché ritiene il musical antico? Vuole fare con il musical quello che Tarantino fa con il western?»

Probabilmente sì…

e ci sono numerosi indizi che avvalorano questa risposta affermativa:

  1. I personaggi sono stereotipi logori dei musical anni ’30 e ’50 (la ragazzina sognatrice e il suonatore squattrinato)
  2. Quando ballano, Chazelle li inquadra come fa Jean Negulesco con Fred Astaire: macchina fissa di fronte a loro, inerte, morta…
  3. Canticchiano e volano, ancora come Astaire…
  4. Citano, nei dialoghi, film classici…
  5. Si muovono in studi hollywoodiani che sembrano impegnati in riprese di film classici…
  6. Alcuni panorami di Los Angeles sono fotografati come se fossero scenari retro-proiettati dei musical anni ’50…
  7. C’è un continuo riferirsi a una Parigi cartapestosa come quella di An American in Paris (di Vincente Minnelli, 1951)…
  8. Ci sono scene di evasione musicale come le Broadway Memories di Singing in the Rain (di Stanley Donen, 1952)

Per cui, per un po’ che il film prosegue, diciamo: «Sì, Chazelle vuole fare una rievocazione post-moderna dei musical più antichi»…

Però i musical antichi avevano una trama totalmente scaccia-pensieri (almeno il più delle volte), mentre Chazelle, a metà film, vorrebbe virare nel “serio”, con discorsi, a dire il vero un po’ arronzati alla meglio, sulla responsabilità e sulla dicotomia tra sogni di gloria e miserabile (economicamente) realtà… dicotomia che distrugge storielle d’amore appassionate e amicizie consolidate…

E questi discorsi che cavolo c’entrano col musical antico???

Beh, potrebbero entrarci benissimo: Kenneth Branagh, in Love’s Labour’s Lost (2000), era riuscito a trovare un tono decente tra la spensieratezza e la risacca di disperazione realistica, ed anche lui ci era uscito con un po’ di affanno: Love’s Labour’s Lost non è un capolavorissimo, ma ha il vantaggio di non prendersi sul serio, mentre Chazelle è proprio convinto di fare le cose bene… Ed è in questo prendersi sul serio su cui Chazelle inciampa più volte…

Nella seconda parte di “realismo”, inoltre, le canzoni quasi smettono di esistere, e Chazelle, da una messa in scena tutta improntata all’apparente dinamismo (su cui dovrò tornare), punta su una messa in scena scolasticissima, con inventiva zero: i dialoghi più drammatici, che avrebbero avuto bisogno di una regia adatta a sottolinearli visivamente, sono risolti con meschini campo/controcampo facilissimi e immobili, fissi sulle performance degli attori, i quali, pur sforzandosi tanto, non riescono a rendere mai il dramma dei dialoghi che recitano…

Perché Chazelle decide di inquadrare solo gli attori senza inventarsi una regia cinematografica?

È anche questa una citazione dai musical anni ’30?

No, stavolta no: gente come Sandrich avrà anche messo la macchina davanti a Fred Astaire senza fare niente, ma, ogni tanto, si inventava almeno dei flou per dare corpo visivo al dramma dei dialoghi (gustatevi, a 2:58, questo splendido su Ginger Rogers in Shall We Dance, 1937):

Sandrich e i suoi negli anni ’30 e ’50 facevano cinema…

Chazelle invece che fa?

1.2: IMPERIZIA TECNICA E TEATRALISMO

Rimembrando il film dall’inizio ti rendi conto che, a un occhio più pronto, il mettere la macchina da presa al servizio dello show, non risponde a una logica di post-modernismo o di citazionismo… risponde probabilmente a una imperizia diffusa…

E, rimembrando, ti rendi conto che, nel primo grande piano-sequenza (che illustra, tra l’altro, una canzone sciocchissima dall’ottimismo più cieco e idiota),

  1. i raccordi tra i vari “stacchi virtuali” sono visibilissimi (cosa per nulla positiva);
  2. che il “tracking shot” implicito in questo piano sequenza dimostrava una grossolana gestione del frame, come se l’operatore fosse un non vedente (per seguire una ballerina che si stacca dalla fila, l’operatore non smette però di tenere in campo anche la fila, col risultato che al resto dei ballerini vengono tagliate chiome, fronti, braccia: come quando ti fai da solo un selfie alla cieca e ti inquadri solo il mento!)
  3. che i colori, accesi e vivaci, non sono in realtà per niente accesi e vivaci, visto che ti rendi conto della loro presenza spesso “dopo” che si sono presentati, segno che, oltre all’operatore, anche il colorist non era in giornata!

Una imperizia tale che spesso sa di amatoriale, e che si unisce alla messa in scena fermissima alla Jean Negulesco, e che restituisce un risultato raggelante:

l’intento di Chazelle non è il post-moderno, il citazionismo, il fare un musical anni ’30, no no, L’INTENTO DI CHAZELLE NON È CINEMATOGRAFICO, MA ORRIBILMENTE TEATRALE…

Una volta capito questo, ti rendi conto che quei piani squenza della prima parte SEMBRAVANO dinamici e veloci, e quindi SEMBRAVA che si contrapponessero ai campi/controcampi della seconda parte, indicando una polarità tra mondo della gioia (la prima parte) e risacca disperata (seconda parte), INVECE NO: anche quei piani sequenza erano SUPER FISSI:

  1. perché fatti con la imperizia amatoriale degna di uno spettacolino “teatrale” (nel senso dispregiativo)
  2. perché, come l’inquadratura fissa su loro che ballano, sono piani sequenza che non “determinano”, ma semplicemente “seguono” i balletti, senza quasi capirci niente, vista anche l’imperizia con cui sono condotti! [«non ci capisco niente sulla messa in scena, e ho la macchina inconsapevole!» e si vede! e sembra che la cosa non sia voluta!]

Quei piani sequenza sembrano diversi dagli shot di Negulesco su Astaire, ma invece sono identici, sono solamente macchina da presa davanti al palcoscenico… e visto che sono condotti senza conoscenze cinematografiche (frame che tagliano le fronti, colori poco lavorati e raccordi virtuali sbagliati), sono piani sequenza teatralissimi, che si limitano a fissare in modo frontale la scena e quindi non ci provano nemmeno a “cinematografizzare” le canzoni, così come Chazelle non prova nemmeno a “cinematografizzare” i dialoghi drammatici della seconda parte…

2: IMPERIZIA NARRATIVA NELLA GESTIONE DEL TONO DIEGETICO

A livello di stile, quindi, tra prima parte sognosa e dinamica e seconda parte triste e ferma non c’è alcuna differenza, perciò la dicotomia della trama tra sogni e difficoltà economiche quasi non sussiste! Sussiste solo a livello di “testo” e non di messa in scena! Segno di una incapacità di gestione filmica di Chazelle drammaticamente evidente!

E se la polarità sussiste solo a livello di trama, anche come trama poteva essere condotta assai meglio! Il sogno della variante di trama che rovescia come è andata,

  1. porta via un sacco di tempo, con una lunghissima sequenza, di nuovo zeppa di citazioni di Donen & Kelly, indigesta
  2. ha evidenti squilibri di tono, poiché scardina i propositi allegroni dell’inizio con esagerata trancianza: lo stacco tra comico e drammatico è esagerato, segno anche questo di una incapacità di scrivere oltre che di inquadrare
  3. a livello drammaturgico creano voragini analettiche veramente grosse, di quelle che ti fanno incorrere nelle matite blu degli insegnanti quando scrivi un tema (o una storia) a caso, senza calibrare le varie parti!…

Una inversione di “genere” che, inoltre, con la sua vertigine di cambio di tono repentino, si accoda a molte commedie cretine americane (in primis quella menata di Crazy, Stupid, Love, 2011, con già la coppia Stone/Gosling, che anticipa molti dei difetti di La La Land): come quelle commedie La La Land vuole fare ridere ma poi vuole fare piangere, e cerca di fare entrambi ignorando che intanto ha gettato fondamenta e motivi diegetici che si contraddicono continuamente: la confezione è allegra quando si piange ed è triste quando si ride… E questi sono ERRORI che potranno anche essere spacciati per genialate, ma sono sciocchezze, che dimostrano che non sei un genio, dimostrano che non sai come fare; non sono fantastiche soluzioni “nuove” di rappresentazione, sono giustapposizioni casuali di cose che non hai saputo controllare, che non hai saputo gestire (bastavano due o tre opportuni flashforward già per farla tornare meglio, o anche solo la lettura di Milan Kundera o la visione di Rapunzel della Disney, o di Body Double di De Palma, per capire come fare, se proprio non ti andava di riguardarti Accadde una Notte di Capra, che, invece, avresti dovuto vedere, visto che volevi fare le citazioni anni ’30)…

3: CONCLUSIONE

Questa è la conclusione di La La Land: una raffazzonata, portata avanti male, troppo lunga e dalle idee virtuosistiche sballate e condotte di merda…

Sono poche idee confuse (sbandierati piani sequenza che spariscono di punto in bianco e che vorrebbero essere supersonici ma sono teatralissimi), in un decotto contraddittorio di dialoghi casuali, mai supportati né da stile né da una concezione diegetica, che si trascina in una durata sterminata…

Per dimostrare la sua inconsistenza basta dire che il film perde tanto tempo (e pubblicità) a farci l’elogio dei pazzi e dei sognatori, ma poi pazzo, effettivamente, nel film non è nessuno, i sogni nessuno prova a realizzarli, la dicotomia sogni/realtà (come s’è visto) è condotta di cacca, e il trionfo della realtà del finale, invece che essere triste, è solo velatamente malinconico e reso con lo stesso stile incapace, tanto da non risultare per nulla coinvolgente, e ci lascia terribilmente indifferenti (e questa è davvero incapacità registica totale!): il film sembra dire: «vince la realtà, vabbé, forse è meglio», quando per tutto il tempo ci aveva detto: «deve vincere il sogno!» – come commentare? e, soprattutto, come prenderlo sul serio?

È paragonabile alla Anna Karenina che Tom Stoppard ha fatto dirigere a Joe Wright, il quale, comunque, almeno ha saputo girare decentemente…

Le uniche cose che si salvano sono una certa piacevole simpatia generale, che però di certo non riscatta i problemi del film (anzi: da quei problemi la simpatia viene sommersa), e, soprattutto, non giustifica l’aura di evento straordinario che lo sta accompagnando e che lo ha portato ad avere così tante nominations…

4: SCHERZI FINALI

Le musichette te le ricordi per forza: il tema principale è una semplice scalettina scherzosa che si ripete sedicimila volte, proprio ti entra in testa con le cattive!

Emma Stone e Ryan Gosling già sanno recitare poco, figuriamoci cantare: mi sono vergognato per loro… Gosling, soprattutto, mormora più che cantare… e la Stone dimostra di avere una gamma di espressioni per lo meno limitata, e per giunta limitata alle sole faccette ridanciane, totalmente inadeguate alle parti che vorrebbero essere drammatiche… E per non infierire è bene soprassedere sulle loro capacità coreutiche: le letterine del programma TV Passaparola di Gerry Scotti ballavano meglio di loro! [e in un contesto citazionista, dove le loro performances dovrebbero “citare” quelle di Fred Astaire o Cyd Charisse, beh, la cosa è da sparo sulla croce rossa: davvero sconcertante che Chazelle non se ne sia accorto! — che non se ne sia accorta la coreografa Mandy Moore (per fortuna solo omonima della ottima attrice televisiva che ha dato la voce alla Rapunzel di Disney) è meno scioccante, visti i suoi orribili risultati già raggiunti nei film di merda di David O. Russell, Il lato positivo (dove la Lawrence e Cooper facevano vomitare) e American Hustle (sul quale non cessiamo mai di stendere veli pietosi)]

Chazelle, ogni tanto, fa degli Whip Pan, cioè tenta di girare la macchina sul proprio asse di 180°, come una testa che si volta di scatto per guardarsi alle spalle o per girarsi all’improvviso da destra a sinistra, per far vedere che la macchina è parte in causa del mondo che rappresenta e quindi “non sa” cosa succede: una cosa che spesso fa Paul Thomas Anderson:

ma, come per i piani sequenza, si vede che Chazelle non è proprio capace di farle…

Per il futuro auguro a Chazelle di imparare un po’ di cinema, di assumere collaboratori che sappiano consigliargli, e di leggere un po’ di manuali di drammaturgia e scrittura per smussare le casualità delle sue storie…

Il casino è che sta piacendo a tutti… forse io sono troppo severo…

Chazelle sta diventando un super-uomo… mentre a me è sembrato uno studente che ha tutto da imparare…

Ovviamente di parere opposto al mio è ItaCinephile

Le invettive continuano in La La Land 2

4 risposte a "La La Land"

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    1. Oddio che bojata…
      128 minuti di gente che balla e canta dei sogni “impossibili” da realizzare, che sono aprire un bar e fare uno spettacolino… ah no: i sogni erano fare i soldi, e i soldi difatti si fanno sposando il riccone e poi dire “ah, che scemo sono stato a pensare un giorno di fare li spettacolini, ma quanta nostalgia alla Gene Kelly nel ripensarci”…
      Anche l’elogio della nonna parigina matta che matta non era, ma era alcolizzata: elogio dei pazzi o degli alcolizzati…?
      Poi i piani sequenza tagliati con l’accétta, accidenti…
      ogni volta che lo intravedo ho conati…

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