Allied

Che dire?

Sentimentale? Certamente…

Prevedibile? Sicuro…

Ma i punti forti sono tanti:

  1. Il descrivere come funzionano le cose in guerra a livello personale e non solo storico-militare… Nella guerra, l’assenza di libertà induce a non fidarsi di nessuno e il concetto imperante del “amici vs nemici” e “buoni vs cattivi”, anche se rivolto al massimo male dei nazisti, non può che provocare rotture e precipitati catastrofici anche privati, che sconquassano ogni felicità. Un aspetto privato e minuto della vicenda bellica che è salutare vedere in tempi cinematografici come questi in cui Avengers, Marvel e DC ci presentano il conflitto e la logica dei “buoni vs cattivi” come unica soluzione dei problemi, e spesso addirittura come divertimento privo di queste conseguenze… Zemeckis si ricorda di essere un autore e ci risveglia dal torpore del divertentoso militaresco che ci attanaglia, e purtroppo non solo al cinema, visto il tremendo rivolgersi ancora alla guerra come risoluzione… e ci ricorda che la guerra vuol dire, soprattutto, mancanza di libertà e impossibilità di felicità… Una cosa che è godurioso sentirsi dire in tempi come questi! — che poi certi aspetti della trama fossero già stati esplorati, forse con maggior coerenza, da Paul Verhoeven nel complesso Zwartboek, è una cosa che non pregiudica il discorso di Zemeckis…
  2. La tensione regge. Nel puro genere, quello di “spy/war”, Zemeckis ritrova la sua capacità di narrare, molte volte dispersa negli ultimi 20-25 anni.* Gli snodi narrativi funzionano, le regole del genere sono rispettate con partecipazione e trasporto, come se Zemeckis girasse un vero atto d’amore verso il modello di rappresentazione del genere “spy/war” classico, con un gusto molto più rispettoso e “intradiscorsivo” rispetto alle repliche post-moderne che, da materiali simili, fa Quentin Tarantino: Tarantino sembra mettere la pietra tombale sulle cose che cita, come se citandole le rendesse vetuste e vecchie (un atteggiamento simile a quello che Stravinskij ebbe verso la dodecafonia negli anni ’50), mentre Zemeckis gira un vero atto d’amore verso il materiale di partenza (senz’atro Casablanca o perfino Morocco), rinvigorente e ribadente la sua importanza: Zemeckis cita come citava la Nouvelle vague (come faceva Truffaut con Welles) e la New Hollywood (come facevano De Palma e Scorsese con Hitchcock), certo con implicazioni “museali” (e quindi, per certi versi, anch’esse mortifere), ma con la gioia del collezionista, con la consapevolezza di aver a che fare con il meglio del meglio, con la deferenza che si dà ai grandi per riportarli in auge e non per denigrarli o deriderli (come invece fa sempre il post-moderno di Tarantino).** Che Zemeckis trovi linfa nella Hollywood classica è quindi un fatto, che Allied non fa altro che confermare, visto che i suoi film migliori sono tutti, chi più chi meno, remake di capolavori degli anni d’oro della Mecca del Cinema, per cui Zemeckis fa da più di 30 anni quello che ha fatto oggi con Allied: All’inseguimento della pietra verde mischia i film esotici della MGM o Paramount alla commedia sofisticata e di dialogo di dicotomia tra uomo e donna di Howard Hawks; Roger Rabbit è un evidente omaggio alla Golden Age dell’animazione (con miscugli di Disney, Tex Avery e Fleischer), e al noir in stile Gilda, Humphrey Bogart e ancora Howard Hawks, Billy Wilder, Robert Siodmark, Fritz Lang, Robert Aldrich ecc. ecc.; Ritorno al futuro è un classico tra George Pal e Jack Arnold, che frequenta gli anni ’50 di Marlon Brando come il western di John Wayne; infine Le verità nascoste è un patchwork di mille film di Hitchcock e Terence Fisher…
  3. Marion Cotillard, che è guidata benissimo nella sua ambiguità: sempre impegnata in sguardi che non sai se essere sinceri o finti, velata dalla magnifica luce, e fasciata dai costumi, è un tripudio di sensualità omaggiante le vecchie femme fatale di quei tempi. Anche in Inception di Nolan aveva affrontato un ruolo che poteva dirsi simile (la buona che non si sa se è cattiva), ma, certamente, Zemeckis fa di meglio nel farla risaltare, anche perché la trama fornisce alla sua interpretazione un contesto assai migliore di quello inutilmente impillaccherato inventato da Nolan…
  4. La rappresentazione visiva, che è quella di un maestro, che ritorna sicuro alla guida di un film diegetico, e quindi, finalmente dopo moltissimi anni, ritorna a usare la macchia da presa come “storyteller” e non come supporto per le masturbazioni informatiche. I barocchismi di Zemeckis (risalenti già a Ritorno al futuro e che già in All’inseguimento della pietra verde innescarono le rimostranze di Kathleen Turner, che si lamentò con Zemeckis in quanto egli intendeva la di lei performance “secondaria” rispetto ai movimenti di macchina: la Turner si vendicò affidando il seguito, Il gioiello del Nilo, al mestierante Lewis Teague) tornano di nuovo a essere funzionali e stupefacenti. Hanno, forse, perso la grinta di certe sue vette passate (l’idea di piano sequenza allo specchio in Contact, pur fintissima e ottenuta al computer, è certamente un’idea più forte di quelle che, pur nel lusso, snocciola Allied nelle sue tante inquadrature con gli specchi), ma garantiscono una solidità stupefacente, e rendono benissimo l’idea di stare vedendo un film con i controcazzi, dal montaggio tagliente e, soprattutto, dalla fotografia (del fido Don Burgess) e dai frame insoliti, ricchi di riflessi specchiosi goduriosissimi, che metaforizzano bene una trama fatta di sotterfugi e di “visioni oblique” (quelle incerte e non chiare) identiche a quelle che dànno proprio le immagini riflesse negli specchi: spesso gli attori sembrano nella stessa inquadratura ma poi si scopre che uno è allo specchio, oppure sembra di stare vedendo l’attore e quindi la “verità”, mentre invece si sta guardando solo il riflesso dell’attore e quindi un’immagine “mediata” e non la “verità”, tutte cose che raddoppiano, con le immagini, il senso di incertezza e di “spionaggio” dei protagonisti…

Per cui, che dire?

Sentimentale? Certamente…

Prevedibile? Sicuro…

Ma a me ha preso alquanto… Pur nella consapevolezza che si sta parlando di un film riuscito bene e non di un capolavorone immenso, viste certe ingenuità, o anche certe concessioni allo sbracanaggio lacrimoso di foggia industriale… Ma i film di genere sono così: hanno le loro leggi “industriali”… Per cui non c’è che da gioire quando un film di genere riesce a veicolare i messaggi descritti al punto 1) e insieme a divertire e a coinvolgere nelle sue maglie ben congegnate…

Zemeckis ha fatto il suo lavoro con classe e con grazia…

Bene dé!

*=dopo le folgoranze ’84-’90, anche passibili di oscillazioni, visti i risultati non esaltanti dei seguiti di Ritorno al Futuro, Zemeckis ha avuto una cesura di carriera tra il 1992 e il 2000, in cui ha progressivamente inseguito l’estetica dell’effetto speciale, con film discontinui, alcuni carini (Contact) e altri meno (La morte ti fa bella), ma tutti con l’ansia dello “special effects”, che coinvolge il molto sopravvalutato Forrest Gump, e l’ultimo trionfo di critica Cast Away, per trovare una breve pausa solo nella carinissima operazione metatestuale Le verità nascoste, dopo la quale ha deciso di dedicarsi, sembrava quasi esclusivamente e per sempre, alla Motion Capture, diventando, con i tre film successivi, Polar Express, Beowulf e Christmas Carol, il regista più idiota del mondo, in un destino che, quasi negli stessi anni, toccò anche a George Miller con gli Happy Feet e i Babe, che, comunque, erano meno banali dei film di Zemeckis, dei quali si salva parzialmente solo Beowulf grazie a uno script rovinato ma dalle solidissime potenzialità, originariamente scritto da Neil Gaiman per Roger Avary. Zemeckis sembrava completamente perduto e, al contrario di Miller, che, anche se tardivamente, ha trovato la sua rinascita nel 2015 con Mad Max: Fury Road, e che prima di allora faceva pochi film quasi a indicare una certa timidezza, Zemeckis appariva invece recidivo, compiaciuto, e quasi beato della sua condizione di regista idiota, visto che è tornato al film “vero” non con un capolavoro (come ha fatto Miller), ma con un filmetto ancora dipendente dagli special effects, Flight, e poi ha girato The Walk, una delle cazzate più grosse mai fatte, poiché, pur con attori, ribadiva un’idea di cinema che voleva il joystick e i pixel come assi portanti invece di idee e sguardo.

**=è necessario fare alcune precisazioni terminologiche… In questo post mi riferisco al «post-moderno» quando parlo del solo Tarantino, mentre affermo che quello della New Hollywood (Scorsese, De Palma e Zemeckis) non è “post-moderno”… Invece, in origine, post-moderno era proprio riferito al cinema della New Hollywood. La monografia curata da Gianni Canova, Robert Zemeckis, Venezia, Marsilio, 2008, si basa proprio sull’idea che Zemeckis è un post-moderno puro, coi fiocchi. Questo perché il “post-moderno” si definisce filosoficamente dai lavori di Jean-François Lyotard, la cui La condition postmoderne è del 1979, anno in cui la New Hollywood è attiva da quasi 10 anni… Però poi, le ricerche filosofiche sul post-moderno sono continuate: Simulacres et Simulation di Jean Beaudrillard è del 1981, e, soprattutto, Postmodernism, or The Cultural Logic of Late Capitalism di Fredric Jameson è del 1991: è quest’ultimo che definisce la condizione “postmodernista” come la intende Tarantino. Un “post-moderno” frutto della nuova ondata neo-capitalista finanziaria più che della condizione culturale del secondo dopoguerra, e quindi più incline al nichilismo e al senso di “inutilità”… Il citazionismo dei “postmodernismi” al cinema (New Hollywood negli anni ’70-’80, e Tarantino negli anni ’90-’00), perciò, riflette queste diverse tendenze del “post-moderno” filosofico: quello della New Hollywood più “positivo” (le cose che si citano sono preziose, e quindi sono da mettere in un museo), quello di Tarantino più “negativo” (le cose che si citano sono solo macerie su cui baloccarsi) — Per tutte queste ragioni io ho differenziato i termini, e ho applicato «post-moderno» solo a Tarantino, riferendomi alle idee di Jameson…

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