John Lee Hancock è uno scrittore solido e sa quello che fa…
Senza di lui Maleficent, in mano a Stromberg, non sarebbe sopravvissuto, e a lui si devono due grandi capolavori di Clint Eastwood, A Perfect World e Midnight in the Garden of Good and Evil…
Però è autore anche di passi falsi, come Biancaneve e il cacciatore…
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Come regista, al pari di molti altri scrittori (vedi John Patrick Shanley, discreto scrittore i cui film da regista fanno tutti schifo), non è assolutamente capace: Saving Mr. Banks è scolastico e The Founder non è da meno…
John Schwartzman, il valentissimo cinematographer che Hancock spesso assume, non può che salvare il salvabile con una indubbia maestria, e indovina due o tre riflessi sui vetri in una confezione molto ben lavorata, con le luci giuste e due o tre movimenti di macchina molto carini, ma il piattume del film “normale”, quello istituzionalissimo, quello uguale a mille altri, è sempre dietro l’angolo…
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Fa eccezione una scena:
quando i fratelli McDonald raccontano di come hanno disegnato la loro cucina, Hancock non si rende conto di stare citando Blow Up di Michelangelo Antonioni…
Le prove per l’uso della cucina si svolgono su un campo di tennis, e i lavoranti devono MIMARE i loro movimenti anche se non hanno né attrezzi né niente…
In Blow Up, per segnare l’incomunicabilità del mondo e l’assurdità dei comportamenti della società odierna, Antonioni fece mimare una partita a tennis da un gruppo di hippies: la palla non c’era, ma la regia seguiva la partita perfettamente in un’aporia rappresentativa (il rappresentato non c’è ma è presente perfettamente la sua rappresentazione) così trascinante che il protagonista non può che partecipare e prendere parte all’assurdità (e alla società):
Hancock sembrava volesse dire che l’intuizione dei McDonald, tutta intesa a fare soldi, tutta intesa alla velocità, tutta intesa verso un profitto e verso uno sfruttamento di idee del tutto avulse da qualsiasi contratto sociale (con i lavoranti sfruttati in gesti inutili, mono-porzioni totalmente inquinanti, standardizzazione del cibo a livelli assurdi), era già da subito deforme e folle, così tanto da essere un prodotto perfetto di quegli anni ’50 tutto edonismo dell’America post-bellica, un prodotto, quindi, della stessa incomunicabilità così ben presentata da Antonioni (il cui Blow Up è del 1966)…
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Un assunto che poteva essere carino… ma che invece viene subito dimenticato…
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I McDonald diventano il simbolo del bel tempo andato, e addirittura si ergono a paladini della qualità gastronomica (un punto che contraddice l’involontaria intuizione anonioniana di cui sopra)… mentre a Keaton vengono attribuite brutture molto poco sottolineate, anche perché le idee peggiori (il trasferimento dell’attività dalla ristorazione all’immobiliare) non vengono neanche a lui, ma ad altri personaggi (ben poco circostanziati e calibrati, quasi dei passanti a caso)…
Quindi che rimane?
Keaton è cattivo, ma è senza mordente… Una parola sulla standardizzazione del cibo? non c’è… Un discorso più serio sul “tradimento” di Keaton nei confronti dei McDonald? blando (da subito Keaton e i McDonald si odiano, perché dovremmo sussultare quando Keaton li raggira)… Un logos sull’avidità di Keaton? pochi accenni, con anche la moglie (la Dern) sfruttata all’acqua di rose… Un pezzo sulla follia di accostare il McDonald’s alla religione e alla patria? piccolissimi cenni, spesso dati per scontati… Uno sviluppo del parallelo tra McDoanald’s e piccoli lavoratori ansiosi di occuparsi (che poteva essere portato avanti in modi diversi: sia per illustrare la voglia di guadagno della piccola borghesia sia per parlare del cambiamento sociale che l’America piccolo-borghese avida, di soldi come di lavoro, sperimentò nei McDonald’s e nel loro business così facile e veloce: McDonald’s faceva faville proprio perché rappresentava quel mito di velocità e quell’opportunità di sostituzione della classe dirigente alto-borghese, già ricchissima, da parte della piccolo-borghesia imprenditrice e famelica di profitti, cambiamento in atto negli anni ’60 e che McDonald’s cavalcò o per lo meno accelerò se non direttamente provocò)? rimane sullo sfondo di pochissime scene…
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Le intenzioni, in sceneggiatura, forse, volevano essere quelle di The Social Network, ma Hancock (e il writer Robert Siegel) non sanno come fare, non sanno fabbricare motivi di dialettica (e quindi di interesse) tra un fattore e un altro (tra uno stile di vita e un altro), non sanno costruire né tensione né cattiveria, né climax né momenti decisivi, e si adagiano su una volontà anodina di “documentazione” dei fatti, che risulta però monocorde: perché non inventare una relazione maggiore tra Keaton e i McDonald per rendere interessante il tradimento? Perché far restare la corte di Keaton alla Cardellini (segno delle voglie insane di possesso di Keaton) fuori scena? Perché non visualizzare con immagini l’avarizia di Keaton? Perché non sottolineare il suo carattere in altri frangenti? Perché non parlare delle condizioni di lavoro dei dipendenti?
Alla fine i McDonald ci fanno la figura dei grandi americani, e su Keaton non si esprimono giudizi di sorta, come a dire «eh, ormai è andata così»…
E che era “andata così”, visti i miliardi di McDonald’s in giro, si sapeva già prima di vedere il film… che quindi perde gran parte della sua utilità…
Il film definitivo sui McDonald’s rimane, quindi, Fast Food Nation di Richard Linklater…
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Però capiamoci meglio: io non volevo che Hancock parlasse per forza male dei McDonald’s… Volevo che il suo film fosse una riflessione più ampia… E invece è solo una mediocre (anche se professionalissima) rappresentazione di una speculazione immobiliare uguale a mille altre le cui vittime sono, per caso, gli inventori, benintenzionati ma già avidi di loro, di un ristorante che alla fine viene quasi santificato… Perché parteggiare per i McDonald?
Qui il film casca: perché è un documento di una transazione tra due parti che Hancock non ha voluto né renderci simpatiche, né “cinematografiche”, e che quindi, a noi pubblico, ci risultano ben poco coinvolgenti, ben poco interessanti, ben poco stimolanti…
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In altre parole: è un film che passa e va senza arricchire… e non riflette proprio per nulla su niente di quello su cui, con un soggetto simile, poteva riflettere…
Un gran peccato…
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La voglia di documentare più che di narrare è anch’essa propria, spesso, di Eastwood, che, a partire da Flags of Our Fathers, conclude i suoi film accostando le immagini degli attori con le foto delle vere persone che hanno impersonato: una tendenza che Hancock ha ereditato sia in The Founder sia nel precedente Saving Mr. Banks (alle immagini e alle foto, Hancock aggiunge anche le voci registrate e i filmati d’archivio)…
Un paio d’anni fa anche Stephen Frears in The Program si era adagiato nel “documentare” più che nel narrare, ma la sua maestria, sia visiva sia scrittoria, aveva dato un risultato molto più coeso e forte, e non anodino e anonimo come The Founder…
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Alcune cose che rimangono in mente, comunque, ci sono: 1) Michael Keaton che si sforza tanto e dà una eccellente prova… 2) una ottima colonna sonora di Carter Burwell… 3) un solido montaggio di Robert Frazen… 4) una buona scenografia “ricostruente” gli anni ’50 dell’esperto Michael Corenblith…
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